La partita dei salari, scopriamo le carte di Marco Crippa La trattativa Governo – Sindacati sul potere d’acquisto dei salari entrerà presto nel vivo, nonostante le tattiche dilatorie del Governo stesso, intenzionato a trovare il conforto della trimestrale di cassa, prima di essere costretto a scoprire le carte e fare proposte concrete. Tuttavia alcune indicazioni già si avvertono e lo strumento prediletto sembra essere quello fiscale. Si profilerebbe quindi un alleggerimento delle aliquote IRPEF, dapprima di quella inferiore, che passerebbe dal 23 al 20% (sempre per redditi sino a € 15mila annui?), per poi procedere negli anni successivi alla riduzione di quelle superiori oggi pari al 27% (redditi da 15mila a 28mila) e 38% (sino a 55mila), senza però modificare le aliquote maggiori pari al 41 e 43%. Non mancano neppure le indicazioni circa l’aumento delle detrazioni per figli e familiari a carico o iniziative specifiche per le famiglie più numerose. Non vanno infine tralasciate le prospettive di detassare gli aumenti contrattuali e/o le erogazioni premianti collegate ad aumenti di produttività (la cosiddetta contrattazione di secondo livello). Vedremo più sotto come trasformare in numeri l’effettivo impatto economico delle novità prospettate, unitamente a considerazioni di carattere generale circa la politica salariale e contributiva sino ad oggi perseguita dagli attori del mercato del lavoro italiano. Evidenzieremo infatti come la leva fiscale non sia l’unico o il maggiore sistema per raggiungere lo scopo, ma che ne esistono altri che nessuno osa proporre per non sconvolgere equilibri consolidati, preferendo lo status quo anche se poco efficace. Seguiamo quindi la proposta del Governo e ipotizziamo che si verifichi la ventilata riduzione della prima aliquota irpef (dal 23 al 20%), e applichiamola ad un operaio con reddito di poco superiore ai 23mila euro l’anno, con un figlio a carico al 50%. La tabella sotto riportata evidenzia, rispetto alla situazione odierna, un incremento di retribuzione netta mensile pari a € 38 (differenza tra “oggi” e colonna a). Nella nostra simulazione non tocchiamo le detrazioni fiscali perché al momento non vi sono indicazioni specifiche in merito.
Riteniamo che nessuno possa pensare di risolvere il problema della difesa dei salari con soli 38 euro mensili, tra l’altro erogati ad una fascia di reddito non certo alta, che dovrebbe invece essere destinataria delle principali attenzioni del Governo. Peraltro, ci preme sottolineare che la riduzione della aliquota fiscale di tre punti percentuali è in realtà di soli 2,5 punti, in quanto nella scorsa finanziaria questo Governo ha pensato bene, nell’indifferenza generale, di aumentare la trattenuta contributiva di mezzo punto (solo parzialmente ridotta per via del meccanismo della riduzione dell’imponibile). Tale incremento si è verificato per tutti i salari, anche per quelli più bassi. Ora si cerca di fare marcia indietro e, con la grancassa mediatica dei ripetuti incontri al vertice, si tenta di dare all’opinione pubblica l’impressione di produrre uno sforzo importante e risolutivo. Insomma di nascosto si aumentano i prelievi e poi si strombazzano le (false) riduzioni. Ma il re è nudo e sarebbe bene che qualcuno lo faccia finalmente uscire dal mondo incantato. Non abbiamo citato a caso la questione dei i contributi previdenziali posti a carico del dipendente, i quali nel nostro esempio rappresentano una trattenuta di ben 170 euro mensili. Va infatti ricordato che sulla normale retribuzione lorda agisce una trattenuta pari al 9,49%, rappresentata dai contributi previdenziali pagati direttamente del lavoratore. Tale somma è trattenuta alla fonte dal datore, distratta quindi dalla retribuzione e versata all’INPS. Il lavoratore non si avvede mai di tale trattenuta, che viene poi sommata al carico contributivo posto sul solo datore (pari a circa il 29% della retribuzione). Pertanto l’INPS riceve un versamento in contributi pari a quasi il 40% (29%+9,49%) della retribuzione spettante al lavoratore. Una parte di questi importi però apparteneva al lavoratore, ma lui non li ha mai visti, perché con il giochetto della ritenuta alla fonte da parte del sostituto di imposta, gli vengono sempre sottratti prima che finiscano nel suo portafogli. La nostra proposta è di rendere nella disponibilità diretta del lavoratore anche queste somme. La colonna (b) rappresenta la nuova ipotesi in cui l’attuale trattenuta di 170 euro torni ad essere parte del reddito pagabile. Il netto risultante, applicando la nuova aliquota del 20%, rispetto alla situazione odierna, è di 155 euro, ossia il quadruplo della proposta governativa. Certamente il lavoratore rinuncerebbe ad una quota di contributi destinati alla pensione, ma perché non lasciare questa scelta nelle mani del lavoratore medesimo? Dato che i contributi oggi trattenuti sono parte della sua retribuzione, perché non lasciargli la potestà di poter determinarne l’uso e la destinazione a seconda delle sue situazioni economiche? La scelta se incassare subito tali somme o di destinarle all’INPS dovrebbe essere sempre revocabile in modo tale che la persona possa sempre scegliere tra un beneficio immediato adatto a risolvere problemi contingenti oppure se capitalizzare gli importi a fini previdenziali. Ma c’è di più, la somma disponibile potrebbe essere a sua volta destinata alla previdenza complementare, quale ulteriore stimolo per rafforzare il famoso secondo pilastro[1]. E non vi sarebbero neppure problemi neppure dal punto di vista del gettito fiscale. Infatti come evidenziato dalla tabella, la somma totale di irpef è addirittura superiore a quella pagata oggi e quindi lo Stato non dovrebbe soffrire di alcun “ammanco” fiscale, anzi incrementerebbe il gettito da destinare “a scopi sociali”, a ristoro del ridotto introito contributivo. La proposta appena descritta segue peraltro la stessa filosofia della riforma previdenziale che ha visto il passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo, in cui l’importo della pensione dipende direttamente dalla massa dei contributi versati dal singolo lavoratore. Allora, appare naturale permettere al medesimo di potere gestire, almeno in parte, la propria “politica pensionistica”, con responsabilità e autonomia. Riteniamo infatti che il cosiddetto “patto fra generazioni”, legato al vecchio sistema previdenziale e tanto caro a chi si nutre solo di ideologie e non di realtà, caratterizzato dal fatto che i contributi versati dai lavoratori non servono alle loro future pensioni a ma quelle di chi oggi è in pensione, realizzi una sorta di rapporto debito-credito tra le generazioni unidirezionale e profondamente antietico, tale per cui le malversazioni del passato non vengono pagate dalla generazione che le ha commesse, ma si scaricano sul futuro e precludono lo sviluppo e la libera disponibilità dei diritti di chi successivamente, e in modo incolpevole, inizia la carriera lavorativa. [1] Secondo pilastro sul quale si sta abbattendo la demenziale, e tutta ideologica, proposta di aumentare la tassazione delle rendite finanziarie. Dato che i fondi gestori del TFR investono in borsa e in titoli pubblici, i lavoratori si troveranno ridotti i propri rendimenti dall’aumentata tassazione. Il Governo ha spinto tanto, anche con un regime fiscale di favore, la previdenza complementare e ora tradisce le promesse. Bell’esempio di politica che infonde fiducia e coesione sociale!
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