Karl Popper: liberale o socialista?
di Dario Antiseri - Pubblicato su "La Lettura" del "Corriere della Sera" del 7 settembre 2014
Nel ventesimo secolo “profeti a destra” e “profeti a sinistra” hanno alimentato le seduzioni del totalitarismo di destra e di quello di sinistra. E «furono pochi – scrive Ralf Dahrendorf in Erasmiani – a resistere a entrambe malgrado tutte le tentazioni. Karl Popper è stato uno di questi, un altro Isaiah Berlin, Raymond Aron un terzo». Karl Popper, prosegue Dahrendorf, «rientrò dall’emigrazione nel 1946 [...].Lì [alla LSE] lavorò fino alla pensione e oltre come professore di logica e di metodo scientifico. Rimase un docente spesso arrabbiato, sempre polemico. A mano a mano che i suoi libri allargarono la loro influenza, in particolare fra i leader politici, questi cominciarono a recarsi da lui – o a invitarlo – per riceverne consigli. Era orgoglioso del fatto che a ricercarlo fossero leader politici di ogni orientamento democratico, e per questa via portò molte delle sue opinioni, spesso intransigenti, fra la gente».
Dunque: un Popper che dà consigli a leader politici di diverso orientamento democratico. Ma Popper, allora, è un liberale o un socialdemocratico? È questo un interrogativo che alimenta una polemica viva ieri come oggi, sulla quale possiamo dire che l’epistolario tra Carnap e Popper getta una luce decisamente chiarificatrice.
Pochi giorni dopo la pubblicazione de La società aperta e i suoi nemici Popper ne invia copia a Rudolf Carnap, allora professore all’Università di Chicago. Carnap non tarda a fargli sapere – in una lettera del 9 febbraio 1946 - di trovare l’opera «estremamente interessante e molte sue parti piuttosto affascinanti»; sottolinea i non pochi punti sui quali si trova d’accordo con Popper; gli chiede in quale misura egli ritenga possibile e utile la pianificazione nel campo economico e politico; ed esprime la propria sorpresa nel constatare l’apprezzamento di Popper nei confronti di Hayek, il cui libro The Road to Serfdom «negli Stati Uniti è molto letto e discusso, ma viene elogiato principalmente dai difensori della libera impresa e del capitalismo sfrenato, mentre tutte le persone di sinistra lo considerano un libro reazionario». Un’idea, questa di un Hayek reazionario, che Popper si affretta a respinge. «Hayek − scrive Popper nella sua replica a Carnap − prova certamente a dimostrare i pericoli del “socialismo” e in particolare del tentativo utopistico di far funzionare una società senza mercato. Ma non è certamente un difensore del capitalismo sfrenato. Al contrario, egli insiste sul bisogno di un sistema di “previdenza sociale”, di una politica anticiclica, ecc. Purtroppo è assolutamente vero che tutte le persone di sinistra, o almeno la maggior parte di esse, lo considerano un reazionario. Solo che costoro sono fin troppo disposti a sacrificare ogni controllo democratico sui governanti, a patto che quei governanti siano sufficientemente di sinistra. Che siano scandalizzati dal fatto che qualcuno sottolinei che la democrazia politica è l’unico mezzo conosciuto per impedire ai governanti, benevoli o meno, di fare qualunque cosa desiderino, è una delle cose tristi del nostro tempo antirazionalistico».
Il 17 novembre, sempre del 1946, Carnap torna ad insistere sulla questione “socialismo contro capitalismo” e chiede apertamente a Popper da quale parte egli stia. «Ho letto con grandissimo interesse i Suoi articoli sullo storicismo. E ora li faccio circolare fra gli amici che sono interessati a questi problemi. Tuttavia da questi articoli, più che dai libri, non riesco a capire chiaramente la Sua posizione su un punto che mi interessa moltissimo: ossia se o in quale misura Lei si considera ancora un socialista. Da alcune formulazioni negli articoli, sembrerebbe che Lei abbia abbandonato il socialismo, ma non è affatto chiaro. Nella Sua lettera parla della speranza per una comune base di discussione per socialisti e liberali. A quale dei due gruppi Lei appartiene?». Questa è la domanda di fondo che Carnap pone a Popper, mentre gli fa sapere di aver incontrato e parlato con Hayek a Chicago: «Poiché non conoscevo il suo libro, non ho parlato con lui direttamente di questi problemi, ma gli ho chiesto personalmente di Lei e della Sua posizione politica. È sembrato piuttosto sorpreso di sapere che Lei è stato un socialdemocratico a Vienna; non sembrava credere che ora Lei si possa considerare un socialista. Naturalmente mi rendo conto che Lei potrebbe trovare difficile descrivere la Sua posizione in maniera adeguata in termini di un concetto inesatto come quello di “socialismo”. Di conseguenza, mi lasci porre la domanda in questi termini: sarebbe Lei d’accordo con me nel credere che sia necessario trasferire almeno la maggior parte dei mezzi di produzione dalle mani private a quelle pubbliche? Io penso che un tale trasferimento non sia affatto incompatibile con quella che Lei chiama “ingegneria sociale”».
Ebbene, nella risposta a Carnap, datata il 6 gennaio del 1947, Popper elenca quelli che sono i suoi punti di disaccordo con la maggior parte dei socialisti: «Non credo che esista una panacea in politica. Credo che in un’economia socializzata (a) ci potrebbero essere differenze di reddito maggiori di quelle attuali; (b) ci potrebbe essere uno sfruttamento peggiore di quello attuale, dato che lo sfruttamento equivale a un abuso del potere economico e la socializzazione significa accumulazione di potere economico; (c) ci potrebbe tranquillamente essere un’interferenza nella politica, da parte delle persone economicamente potenti, maggiore di quella attuale; (d) ci potrebbe essere una quantità di controllo del pensiero, da parte delle persone economicamente e politicamente potenti, maggiore di quella attuale». In altri termini, Popper si dichiara convinto che la socializzazione può peggiorare le cose piuttosto che migliorarle; e ciò mentre «pochi socialisti sono sufficientemente critici e distaccati da essere disposti a prendere in considerazione queste possibilità» − possibilità di «pericoli molto reali» e «non solo possibilità astratte». Detto diversamente: «Non sono né a favore della socializzazione né contro. Mi rendo conto che la socializzazione potrebbe migliorare determinate questioni ma potrebbe anche peggiorarle. Tutto dipende da come si affrontano queste cose. Temo che i socialisti, in generale, non si rendano conto di questi pericoli e quindi affrontino queste cose in un modo che può provocare disastri».
Quel che Popper raccomanda a Carnap è, insomma, che, in ambito politico, si deve essere «meno religiosi e più concreti», precisando che il pericolo principale del socialismo è quell’elemento utopico e messianico che «lo spinge così facilmente in una direzione totalitaria». Troppo semplici e troppo ingenue sono, ad avviso di Popper, le filosofie politiche ereditate dal secolo XIX. Ed ecco il punto nodale della sua proposta: «Condivido totalmente […] le convinzioni dei liberali che la libertà sia la cosa più importante in campo politico. Ma sono convinto che la libertà non possa essere conservata senza migliorare la giustizia distributiva, vale a dire senza aumentare l’uguaglianza economica». Sta qui, dunque, la ragione per cui «dobbiamo abbandonare le credenze dogmatiche e semireligiose in questo campo e dobbiamo provare a raggiungere un atteggiamento più razionale. E questo potrebbe essere condiviso dai liberali e dai socialisti». Ed è così, allora, dirà Popper qualche anno più tardi in una conferenza tenuta a Siviglia, che «noi dovremmo tentare di occuparci di politica al di fuori della polarizzazione sinistra-destra». Questo il nucleo teorico del suo liberalismo: «Per “liberale” non intendo una persona che simpatizzi per qualche partito politico, ma semplicemente un uomo che dà importanza alla libertà individuale ed è consapevole dei pericoli inerenti a tutte le forme di potere e di autorità».
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Nel ventesimo secolo “profeti a destra” e “profeti a sinistra” hanno alimentato le seduzioni del totalitarismo di destra e di quello di sinistra. E «furono pochi – scrive Ralf Dahrendorf in Erasmiani – a resistere a entrambe malgrado tutte le tentazioni. Karl Popper è stato uno di questi, un altro Isaiah Berlin, Raymond Aron un terzo». Karl Popper, prosegue Dahrendorf, «rientrò dall’emigrazione nel 1946 [...].Lì [alla LSE] lavorò fino alla pensione e oltre come professore di logica e di metodo scientifico. Rimase un docente spesso arrabbiato, sempre polemico. A mano a mano che i suoi libri allargarono la loro influenza, in particolare fra i leader politici, questi cominciarono a recarsi da lui – o a invitarlo – per riceverne consigli. Era orgoglioso del fatto che a ricercarlo fossero leader politici di ogni orientamento democratico, e per questa via portò molte delle sue opinioni, spesso intransigenti, fra la gente».
Dunque: un Popper che dà consigli a leader politici di diverso orientamento democratico. Ma Popper, allora, è un liberale o un socialdemocratico? È questo un interrogativo che alimenta una polemica viva ieri come oggi, sulla quale possiamo dire che l’epistolario tra Carnap e Popper getta una luce decisamente chiarificatrice.
Pochi giorni dopo la pubblicazione de La società aperta e i suoi nemici Popper ne invia copia a Rudolf Carnap, allora professore all’Università di Chicago. Carnap non tarda a fargli sapere – in una lettera del 9 febbraio 1946 - di trovare l’opera «estremamente interessante e molte sue parti piuttosto affascinanti»; sottolinea i non pochi punti sui quali si trova d’accordo con Popper; gli chiede in quale misura egli ritenga possibile e utile la pianificazione nel campo economico e politico; ed esprime la propria sorpresa nel constatare l’apprezzamento di Popper nei confronti di Hayek, il cui libro The Road to Serfdom «negli Stati Uniti è molto letto e discusso, ma viene elogiato principalmente dai difensori della libera impresa e del capitalismo sfrenato, mentre tutte le persone di sinistra lo considerano un libro reazionario». Un’idea, questa di un Hayek reazionario, che Popper si affretta a respinge. «Hayek − scrive Popper nella sua replica a Carnap − prova certamente a dimostrare i pericoli del “socialismo” e in particolare del tentativo utopistico di far funzionare una società senza mercato. Ma non è certamente un difensore del capitalismo sfrenato. Al contrario, egli insiste sul bisogno di un sistema di “previdenza sociale”, di una politica anticiclica, ecc. Purtroppo è assolutamente vero che tutte le persone di sinistra, o almeno la maggior parte di esse, lo considerano un reazionario. Solo che costoro sono fin troppo disposti a sacrificare ogni controllo democratico sui governanti, a patto che quei governanti siano sufficientemente di sinistra. Che siano scandalizzati dal fatto che qualcuno sottolinei che la democrazia politica è l’unico mezzo conosciuto per impedire ai governanti, benevoli o meno, di fare qualunque cosa desiderino, è una delle cose tristi del nostro tempo antirazionalistico».
Il 17 novembre, sempre del 1946, Carnap torna ad insistere sulla questione “socialismo contro capitalismo” e chiede apertamente a Popper da quale parte egli stia. «Ho letto con grandissimo interesse i Suoi articoli sullo storicismo. E ora li faccio circolare fra gli amici che sono interessati a questi problemi. Tuttavia da questi articoli, più che dai libri, non riesco a capire chiaramente la Sua posizione su un punto che mi interessa moltissimo: ossia se o in quale misura Lei si considera ancora un socialista. Da alcune formulazioni negli articoli, sembrerebbe che Lei abbia abbandonato il socialismo, ma non è affatto chiaro. Nella Sua lettera parla della speranza per una comune base di discussione per socialisti e liberali. A quale dei due gruppi Lei appartiene?». Questa è la domanda di fondo che Carnap pone a Popper, mentre gli fa sapere di aver incontrato e parlato con Hayek a Chicago: «Poiché non conoscevo il suo libro, non ho parlato con lui direttamente di questi problemi, ma gli ho chiesto personalmente di Lei e della Sua posizione politica. È sembrato piuttosto sorpreso di sapere che Lei è stato un socialdemocratico a Vienna; non sembrava credere che ora Lei si possa considerare un socialista. Naturalmente mi rendo conto che Lei potrebbe trovare difficile descrivere la Sua posizione in maniera adeguata in termini di un concetto inesatto come quello di “socialismo”. Di conseguenza, mi lasci porre la domanda in questi termini: sarebbe Lei d’accordo con me nel credere che sia necessario trasferire almeno la maggior parte dei mezzi di produzione dalle mani private a quelle pubbliche? Io penso che un tale trasferimento non sia affatto incompatibile con quella che Lei chiama “ingegneria sociale”».
Ebbene, nella risposta a Carnap, datata il 6 gennaio del 1947, Popper elenca quelli che sono i suoi punti di disaccordo con la maggior parte dei socialisti: «Non credo che esista una panacea in politica. Credo che in un’economia socializzata (a) ci potrebbero essere differenze di reddito maggiori di quelle attuali; (b) ci potrebbe essere uno sfruttamento peggiore di quello attuale, dato che lo sfruttamento equivale a un abuso del potere economico e la socializzazione significa accumulazione di potere economico; (c) ci potrebbe tranquillamente essere un’interferenza nella politica, da parte delle persone economicamente potenti, maggiore di quella attuale; (d) ci potrebbe essere una quantità di controllo del pensiero, da parte delle persone economicamente e politicamente potenti, maggiore di quella attuale». In altri termini, Popper si dichiara convinto che la socializzazione può peggiorare le cose piuttosto che migliorarle; e ciò mentre «pochi socialisti sono sufficientemente critici e distaccati da essere disposti a prendere in considerazione queste possibilità» − possibilità di «pericoli molto reali» e «non solo possibilità astratte». Detto diversamente: «Non sono né a favore della socializzazione né contro. Mi rendo conto che la socializzazione potrebbe migliorare determinate questioni ma potrebbe anche peggiorarle. Tutto dipende da come si affrontano queste cose. Temo che i socialisti, in generale, non si rendano conto di questi pericoli e quindi affrontino queste cose in un modo che può provocare disastri».
Quel che Popper raccomanda a Carnap è, insomma, che, in ambito politico, si deve essere «meno religiosi e più concreti», precisando che il pericolo principale del socialismo è quell’elemento utopico e messianico che «lo spinge così facilmente in una direzione totalitaria». Troppo semplici e troppo ingenue sono, ad avviso di Popper, le filosofie politiche ereditate dal secolo XIX. Ed ecco il punto nodale della sua proposta: «Condivido totalmente […] le convinzioni dei liberali che la libertà sia la cosa più importante in campo politico. Ma sono convinto che la libertà non possa essere conservata senza migliorare la giustizia distributiva, vale a dire senza aumentare l’uguaglianza economica». Sta qui, dunque, la ragione per cui «dobbiamo abbandonare le credenze dogmatiche e semireligiose in questo campo e dobbiamo provare a raggiungere un atteggiamento più razionale. E questo potrebbe essere condiviso dai liberali e dai socialisti». Ed è così, allora, dirà Popper qualche anno più tardi in una conferenza tenuta a Siviglia, che «noi dovremmo tentare di occuparci di politica al di fuori della polarizzazione sinistra-destra». Questo il nucleo teorico del suo liberalismo: «Per “liberale” non intendo una persona che simpatizzi per qualche partito politico, ma semplicemente un uomo che dà importanza alla libertà individuale ed è consapevole dei pericoli inerenti a tutte le forme di potere e di autorità».
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