Le ragioni della poliarchia
di Luca Diotallevi
Se la prendiamo sul serio, per la Caritas in Veritate non è ancora venuto il momento del commento generale. Siamo ancora nel momento della lettura, e sarà una lettura impegnativa visto l’invito – come non definirlo radicale? – a sviluppare un «pensiero nuovo» (CV 78), ad intraprendere un «discernimento» caratterizzato da «realismo» (CV 21) e dalla ricerca di «soluzioni nuove» (CV 32). Quanto segue non può dunque che essere un piccolo contributo alla lettura della terza lettera enciclica di Benedetto XVI.
Nel testo molti punti attirano un’attenzione che è quasi difficile tenere a bada. Si pensi allo spessore personale, vocazionale, che è dato alla «verità». Ciascuna persona è invitata a cercare la verità – «la sua verità» – nella propria irripetibile relazione con Dio (CV 1). O si pensi alla risonanza che può avere nelle relazioni con gli altri cristiani e con gli ebrei la sottolineatura del ruolo che l’amore deve avere nella partecipazione alla vita sociale (CV ad es. 17 e 19), non escluse politica ed economia. Per questa via, il magistero sociale della Chiesa esprime profonda simpatia con un punto decisivo del pensiero politico ebraico e con quello di una parte importante della Riforma (a partire dal tema teologico-politico del covenant). Tuttavia, tra i tanti, in questa sede vorrei concentrami su di un solo punto.
Con il numero 57 della Caritas in Veritate fa il suo ingresso nel lessico del magistero pontificio il termine “poliarchico”. (Si tratta di un termine – e più in generale di una prospettiva – comune ad una parte significativa e precisa, ma certo non maggioritaria, del pensiero sociale e politico contemporaneo.) Credo che il fatto meriti un po’ di attenzione sia per la novità, sia per la scarsa diffusione che il termine ha, sia per il ruolo cruciale che gli viene assegnato. Il numero citato è collocato infatti all’inizio della IV parte della enciclica, quella in cui si avanzano alcune istanze piuttosto precise e tra queste quella di una riforma della governance globale sia in ambito politico che in ambito economico (CV 67). (Proprio su questa parte, del resto, si è concentrata la maggior parte dei commenti e delle valutazioni “a caldo”.) L’insieme delle indicazioni è introdotto da una affermazione che non si può trascurare e che vale per tutto ciò che segue: il sistema di poteri che può aiutare a cogliere la opportunità costituita dalla globalizzazione deve essere strutturato in modo «sussidiario e poliarchico».
Dare un valore positivo ad un assetto sociale poliarchico equivale a sostenere che la vita sociale corre un grave rischio ogni qual volta è posta (più o meno direttamente) sotto un solo potere (come avviene nelle moderne teorie dello stato). Sostenere le ragioni della poli-archia equivale a ritenere che la realtà sociale non è compresa adeguatamente se ricondotta ad un solo principio (ad una sola archè), se è concepita come realtà dotata di un solo centro o di un solo vertice. Difendere le ragioni della poliarchia significa contrastare la tendenza del potere politico, o di quello economico, o di quello scientifico a farsi assoluto (superiorem non recognoscens); in breve, significa valorizzare la funzione di reciproca limitazione che ciascun potere sociale svolge rispetto a tutti gli altri. Del resto, il peccato che nell’episodio della Torre di Babele (Gen 11, 1-9) viene punito è la negazione della varietà e delle differenze fiorite dalla alleanza tra Dio e Noè dopo il diluvio e da Dio stesso benedette.
La comparsa del termine «poliarchico» può funzionare da chiave che ci introduce al significato di alcune delle opzioni strategiche presentate nel testo.
Innanzitutto, come s’è visto, la valorizzazione di un ordine sociale poliarchico (e non mon-archico) è strettamente collegata alla affermazione del principio di sussidiarietà. Immediatamente prima del passaggio appena ricordato si legge «per non dar vita ad un pericoloso potere universale di tipo monocratico, il governo (la governance, come in altre versioni del testo, il sistema dei poteri, potremmo anche dire in italiano) deve essere di tipo sussidiario». Dunque, con il riferimento alla poliarchia che immediatamente segue si indica l’effetto combinato della sussidiarietà orizzontale (per cui la politica non deve fare quello che meglio farebbe l’economia, l’economia ciò che meglio farebbe la scienza, ecc.) e della sussidiarietà verticale (per cui una organizzazione più lontana dalla persona non deve fare ciò che meglio può fare una organizzazione più vicina alla persona). Insomma, poliarchico è un ordine sociale sempre aperto ed al quale contribuiscono – anche controllandosi e limitandosi reciprocamente – istituzioni, poteri e soggetti i più diversi.
Il riferimento alla poliarchia non ci aiuta a comprendere solo il respiro della sussidiarietà, ma ci aiuta a comprendere anche molti passaggi dell’intera enciclica. Lo stato è spiazzato e marginalizzato dalla globalizzazione (CV ad es. 24 e 37): uno “stato planetario” – semmai possibile – è da temere, ma la società globale continua ad aver bisogno anche di istituzioni e di poteri politici che sappiano abbandonare pretese di assolutezza e sappiano specializzarsi per operare in un contesto poliarchico. Altrove l’enciclica raccomanda una poliarchia ricca, perché anche il «binomio esclusivo mercato-stato corrode la socialità» (CV 39). Tanto più la società è poliarchica, quanto più è civile.
Il riferimento alla poliarchia, inoltre, aiuta a cogliere una delle radici che collega la Caritas in Veritate a tutta la recente crescita del più alto magistero sociale della Chiesa. Anche attraverso quel riferimento, il testo di papa Ratzinger rivela il suo legame con l’incontro tra insegnamento sociale della Chiesa e costituzionalismo come istanza di limitazione dei poteri del quale Pio XII fu pioniere, con il riconoscimento del valore della libertà della persona operato da Giovanni XXIII nella Pacem in Terris, con l’insegnamento sociale del Concilio – quello della Gaudium et Spes e non di meno quello della Dignitatis Humanae –, con il Paolo VI citatissimo nel testo ratzingeriano, con il Wojtyla della Centesimus Annus che con sistematicità insiste sui limiti da porre all’intervento del potere politico innanzitutto nelle vicende economiche ed in quelle culturali (CA 48). In un certo senso il numero 7 di Caritas in Veritate sintetizza il cammino di questo ultimo mezzo secolo con la scelta di una immagine che in qualche modo suggella una sorta di riduzione allo stato laicale di ogni potere mondano, politico come economico: «impegnarsi per il bene comune è prendersi cura, da una parte, e avvalersi, dall’altra, di quel complesso di istituzioni che strutturano giuridicamente, civilmente, politicamente, culturalmente il vivere sociale, che in tal modo prende forma di pólis, di città». In prospettiva poliarchica, la civile convivenza è rappresentata in maniera più adeguata come pólis che non come stato.
Infine, la istanza poliarchica – quella di poteri che limitandosi contrastano la egemonia di uno solo di essi – bene si integra con le altre due che concorrono a dare il senso della ampiezza del bene comune (CV 15): la irriducibilità della persona umana a mero elemento delle dinamiche sociali e la destinazione di ogni persona umana alla vita eterna (l’una e l’altra ricordate ancora una volta con testi di Paolo VI). La trascendenza della vita umana e la sua destinazione all’eternità ben si integrano con l’opzione poliarchica. Questa certo non le contiene, ma provvede loro l’idea di una civile convivenza in cui ogni potere deve essere sempre limitato e già per questa ragione non può disporre del futuro e neppure del solo presente. Nella prospettiva della poliarchia nessuna istituzione, a cominciare dallo stato, può pretendere un potere assoluto, può esigere obbedienza incondizionata dalle coscienze, può circoscrivere l’orizzonte della vicenda umana entro uno spazio ed un tempo.
Se la prendiamo sul serio, per la Caritas in Veritate non è ancora venuto il momento del commento generale. Siamo ancora nel momento della lettura, e sarà una lettura impegnativa visto l’invito – come non definirlo radicale? – a sviluppare un «pensiero nuovo» (CV 78), ad intraprendere un «discernimento» caratterizzato da «realismo» (CV 21) e dalla ricerca di «soluzioni nuove» (CV 32). Quanto segue non può dunque che essere un piccolo contributo alla lettura della terza lettera enciclica di Benedetto XVI.
Nel testo molti punti attirano un’attenzione che è quasi difficile tenere a bada. Si pensi allo spessore personale, vocazionale, che è dato alla «verità». Ciascuna persona è invitata a cercare la verità – «la sua verità» – nella propria irripetibile relazione con Dio (CV 1). O si pensi alla risonanza che può avere nelle relazioni con gli altri cristiani e con gli ebrei la sottolineatura del ruolo che l’amore deve avere nella partecipazione alla vita sociale (CV ad es. 17 e 19), non escluse politica ed economia. Per questa via, il magistero sociale della Chiesa esprime profonda simpatia con un punto decisivo del pensiero politico ebraico e con quello di una parte importante della Riforma (a partire dal tema teologico-politico del covenant). Tuttavia, tra i tanti, in questa sede vorrei concentrami su di un solo punto.
Con il numero 57 della Caritas in Veritate fa il suo ingresso nel lessico del magistero pontificio il termine “poliarchico”. (Si tratta di un termine – e più in generale di una prospettiva – comune ad una parte significativa e precisa, ma certo non maggioritaria, del pensiero sociale e politico contemporaneo.) Credo che il fatto meriti un po’ di attenzione sia per la novità, sia per la scarsa diffusione che il termine ha, sia per il ruolo cruciale che gli viene assegnato. Il numero citato è collocato infatti all’inizio della IV parte della enciclica, quella in cui si avanzano alcune istanze piuttosto precise e tra queste quella di una riforma della governance globale sia in ambito politico che in ambito economico (CV 67). (Proprio su questa parte, del resto, si è concentrata la maggior parte dei commenti e delle valutazioni “a caldo”.) L’insieme delle indicazioni è introdotto da una affermazione che non si può trascurare e che vale per tutto ciò che segue: il sistema di poteri che può aiutare a cogliere la opportunità costituita dalla globalizzazione deve essere strutturato in modo «sussidiario e poliarchico».
Dare un valore positivo ad un assetto sociale poliarchico equivale a sostenere che la vita sociale corre un grave rischio ogni qual volta è posta (più o meno direttamente) sotto un solo potere (come avviene nelle moderne teorie dello stato). Sostenere le ragioni della poli-archia equivale a ritenere che la realtà sociale non è compresa adeguatamente se ricondotta ad un solo principio (ad una sola archè), se è concepita come realtà dotata di un solo centro o di un solo vertice. Difendere le ragioni della poliarchia significa contrastare la tendenza del potere politico, o di quello economico, o di quello scientifico a farsi assoluto (superiorem non recognoscens); in breve, significa valorizzare la funzione di reciproca limitazione che ciascun potere sociale svolge rispetto a tutti gli altri. Del resto, il peccato che nell’episodio della Torre di Babele (Gen 11, 1-9) viene punito è la negazione della varietà e delle differenze fiorite dalla alleanza tra Dio e Noè dopo il diluvio e da Dio stesso benedette.
La comparsa del termine «poliarchico» può funzionare da chiave che ci introduce al significato di alcune delle opzioni strategiche presentate nel testo.
Innanzitutto, come s’è visto, la valorizzazione di un ordine sociale poliarchico (e non mon-archico) è strettamente collegata alla affermazione del principio di sussidiarietà. Immediatamente prima del passaggio appena ricordato si legge «per non dar vita ad un pericoloso potere universale di tipo monocratico, il governo (la governance, come in altre versioni del testo, il sistema dei poteri, potremmo anche dire in italiano) deve essere di tipo sussidiario». Dunque, con il riferimento alla poliarchia che immediatamente segue si indica l’effetto combinato della sussidiarietà orizzontale (per cui la politica non deve fare quello che meglio farebbe l’economia, l’economia ciò che meglio farebbe la scienza, ecc.) e della sussidiarietà verticale (per cui una organizzazione più lontana dalla persona non deve fare ciò che meglio può fare una organizzazione più vicina alla persona). Insomma, poliarchico è un ordine sociale sempre aperto ed al quale contribuiscono – anche controllandosi e limitandosi reciprocamente – istituzioni, poteri e soggetti i più diversi.
Il riferimento alla poliarchia non ci aiuta a comprendere solo il respiro della sussidiarietà, ma ci aiuta a comprendere anche molti passaggi dell’intera enciclica. Lo stato è spiazzato e marginalizzato dalla globalizzazione (CV ad es. 24 e 37): uno “stato planetario” – semmai possibile – è da temere, ma la società globale continua ad aver bisogno anche di istituzioni e di poteri politici che sappiano abbandonare pretese di assolutezza e sappiano specializzarsi per operare in un contesto poliarchico. Altrove l’enciclica raccomanda una poliarchia ricca, perché anche il «binomio esclusivo mercato-stato corrode la socialità» (CV 39). Tanto più la società è poliarchica, quanto più è civile.
Il riferimento alla poliarchia, inoltre, aiuta a cogliere una delle radici che collega la Caritas in Veritate a tutta la recente crescita del più alto magistero sociale della Chiesa. Anche attraverso quel riferimento, il testo di papa Ratzinger rivela il suo legame con l’incontro tra insegnamento sociale della Chiesa e costituzionalismo come istanza di limitazione dei poteri del quale Pio XII fu pioniere, con il riconoscimento del valore della libertà della persona operato da Giovanni XXIII nella Pacem in Terris, con l’insegnamento sociale del Concilio – quello della Gaudium et Spes e non di meno quello della Dignitatis Humanae –, con il Paolo VI citatissimo nel testo ratzingeriano, con il Wojtyla della Centesimus Annus che con sistematicità insiste sui limiti da porre all’intervento del potere politico innanzitutto nelle vicende economiche ed in quelle culturali (CA 48). In un certo senso il numero 7 di Caritas in Veritate sintetizza il cammino di questo ultimo mezzo secolo con la scelta di una immagine che in qualche modo suggella una sorta di riduzione allo stato laicale di ogni potere mondano, politico come economico: «impegnarsi per il bene comune è prendersi cura, da una parte, e avvalersi, dall’altra, di quel complesso di istituzioni che strutturano giuridicamente, civilmente, politicamente, culturalmente il vivere sociale, che in tal modo prende forma di pólis, di città». In prospettiva poliarchica, la civile convivenza è rappresentata in maniera più adeguata come pólis che non come stato.
Infine, la istanza poliarchica – quella di poteri che limitandosi contrastano la egemonia di uno solo di essi – bene si integra con le altre due che concorrono a dare il senso della ampiezza del bene comune (CV 15): la irriducibilità della persona umana a mero elemento delle dinamiche sociali e la destinazione di ogni persona umana alla vita eterna (l’una e l’altra ricordate ancora una volta con testi di Paolo VI). La trascendenza della vita umana e la sua destinazione all’eternità ben si integrano con l’opzione poliarchica. Questa certo non le contiene, ma provvede loro l’idea di una civile convivenza in cui ogni potere deve essere sempre limitato e già per questa ragione non può disporre del futuro e neppure del solo presente. Nella prospettiva della poliarchia nessuna istituzione, a cominciare dallo stato, può pretendere un potere assoluto, può esigere obbedienza incondizionata dalle coscienze, può circoscrivere l’orizzonte della vicenda umana entro uno spazio ed un tempo.