Obama @ West Point
di Alia K. Nardini
Non potrebbe essere più stridente il contrasto tra i discorsi pronunciati da Barack Obama durante il suo viaggio in Asia, e quello di West Point lo scorso 2 dicembre. Se a caratterizzare i primi era la 'mano tesa' (un approccio che prometteva diplomazia e riconciliazione delle differenze), l’ultimo discorso del Presidente ha ripreso toni e contenuti della Dottrina Bush, dimostrandosi risolutamente ed inequivocabilmente neoconservatore.
Ai cadetti statunitensi Obama ha ricordato che la guerra in Afghanistan è una guerra giusta: non solo legittima o necessaria, ma moralmente imperativa per il bene dell’America e per la sicurezza internazionale. Questa guerra rientra nella più ampia missione statunitense per sconfiggere il terrorismo (Obama preferisce utilizzare il termine 'estremismo violento') nel mondo: una missione che, in modalità ancora da definirsi, dovrà confrontarsi in futuro anche con i complessi scenari di Pakistan, Somalia e Yemen. Non ci sono mai stati dubbi riguardo all’invio di più truppe, specifica il Presidente: i soldati sono pronti a partire ora che è iniziato il ritiro dall’Iraq – ritiro che non si concluderà comunque prima della fine del 2011. Bush aveva stimato di restare in Iraq solo tre mesi in più.
Il discorso di Obama non deve tuttavia stupire: si tratta a tutti gli effetti di un ritorno alla campagna elettorale, in cui l’allora Senatore dell’Illinois prometteva un massiccio aumento delle truppe sul fronte afgano, un approccio risoluto con il Pakistan e più generalmente l’impegno a difendere e promuovere oltreconfine l’eccezionalismo americano, insieme ai valori di libertà e democrazia, per un mondo più sicuro e più giusto. Certo, in quest’ottica i toni conciliatori verso Russia e Cina che hanno sinora contraddistinto l’Amministrazione in carica appaiono quantomeno contraddittori: ma la rinnovata risolutezza in politica estera nel Medio Oriente non può che giovare all’America, oggi alla ricerca di chiarezza dopo la rovinosa crisi economica.
Tra gli alleati europei regna lo sconcerto: ne è prova il pochissimo spazio ed attenzione dedicati all’ultimo discorso di Obama ed ai suoi contenuti. Resterebbero da muovere al Presidente – quantomeno per coerenza – le stesse obiezioni che un tempo valevano per Bush. Si tratta di domande forse non condivisibili, ma di certo lecite, che nessuno sta ponendo: perché questa guerra e non altre, dove l’intervento statunitense sarebbe più urgente e moralmente auspicabile (il Sudan è in cima alla lista)? Perché l’America che non vuole essere chiamata 'impero', e si ostina a definirsi 'un partner e non un patrono', per usare le parole di Obama, vuole ad ogni costo anteporre la propria leadership e il proprio giudizio a qualsiasi proposta prudenziale avanzata a livello internazionale? E perché spendere ancora per queste guerre? Non ci sono forse questioni domestiche più pressanti di cui occuparsi, come il sistema sanitario e l’economia in difficoltà? Il terrorismo, forse, si potrebbe combattere altrettanto efficacemente sul suolo americano.
Non potrebbe essere più stridente il contrasto tra i discorsi pronunciati da Barack Obama durante il suo viaggio in Asia, e quello di West Point lo scorso 2 dicembre. Se a caratterizzare i primi era la 'mano tesa' (un approccio che prometteva diplomazia e riconciliazione delle differenze), l’ultimo discorso del Presidente ha ripreso toni e contenuti della Dottrina Bush, dimostrandosi risolutamente ed inequivocabilmente neoconservatore.
Ai cadetti statunitensi Obama ha ricordato che la guerra in Afghanistan è una guerra giusta: non solo legittima o necessaria, ma moralmente imperativa per il bene dell’America e per la sicurezza internazionale. Questa guerra rientra nella più ampia missione statunitense per sconfiggere il terrorismo (Obama preferisce utilizzare il termine 'estremismo violento') nel mondo: una missione che, in modalità ancora da definirsi, dovrà confrontarsi in futuro anche con i complessi scenari di Pakistan, Somalia e Yemen. Non ci sono mai stati dubbi riguardo all’invio di più truppe, specifica il Presidente: i soldati sono pronti a partire ora che è iniziato il ritiro dall’Iraq – ritiro che non si concluderà comunque prima della fine del 2011. Bush aveva stimato di restare in Iraq solo tre mesi in più.
Il discorso di Obama non deve tuttavia stupire: si tratta a tutti gli effetti di un ritorno alla campagna elettorale, in cui l’allora Senatore dell’Illinois prometteva un massiccio aumento delle truppe sul fronte afgano, un approccio risoluto con il Pakistan e più generalmente l’impegno a difendere e promuovere oltreconfine l’eccezionalismo americano, insieme ai valori di libertà e democrazia, per un mondo più sicuro e più giusto. Certo, in quest’ottica i toni conciliatori verso Russia e Cina che hanno sinora contraddistinto l’Amministrazione in carica appaiono quantomeno contraddittori: ma la rinnovata risolutezza in politica estera nel Medio Oriente non può che giovare all’America, oggi alla ricerca di chiarezza dopo la rovinosa crisi economica.
Tra gli alleati europei regna lo sconcerto: ne è prova il pochissimo spazio ed attenzione dedicati all’ultimo discorso di Obama ed ai suoi contenuti. Resterebbero da muovere al Presidente – quantomeno per coerenza – le stesse obiezioni che un tempo valevano per Bush. Si tratta di domande forse non condivisibili, ma di certo lecite, che nessuno sta ponendo: perché questa guerra e non altre, dove l’intervento statunitense sarebbe più urgente e moralmente auspicabile (il Sudan è in cima alla lista)? Perché l’America che non vuole essere chiamata 'impero', e si ostina a definirsi 'un partner e non un patrono', per usare le parole di Obama, vuole ad ogni costo anteporre la propria leadership e il proprio giudizio a qualsiasi proposta prudenziale avanzata a livello internazionale? E perché spendere ancora per queste guerre? Non ci sono forse questioni domestiche più pressanti di cui occuparsi, come il sistema sanitario e l’economia in difficoltà? Il terrorismo, forse, si potrebbe combattere altrettanto efficacemente sul suolo americano.