Meritocrazia e dottrina cattolica, «parenti stretti» o realtà alternative?
di Lorenzo Fazzini
Il concetto di merito è entrato ormai a pieno titolo nel dibattito pubblico e si è affermato - almeno in teoria - come un valore da perseguire nelle (auspicate) riforme del Belpaese. Ma ora c'è chi mette in forte dubbio che la meritocrazia possa conciliarsi con i valori del Vangelo. Nei giorni scorsi, in un intervento su questo giornale, Giovanni Bazoli, presidente di Banca Intesa San Paolo, chiedeva una «nuova e spregiudicata riflessione» su tale questione, in particolare domandandosi se «una concezione etica dell'economia che assolutizzi il primato del merito ed esalti la competizione al fine di selezionare i più bravi e i più forti sia aderente ai principi evangelici». A Bazoli replicava, sul Riformista di domenica scorsa, l'economista Alberto Mingardi, direttore dell'Istituto Bruno Leoni di Torino, che ha qualificato come «curioso» l'interrogativo del banchiere bresciano.
Ma meritocrazia e Vangelo confliggono o s'accordano? Il filosofo Dario Antiseri, docente di Metodologia delle scienze sociali all'università Luiss, propende per la seconda. Anzitutto Antiseri se la prende con quei «soloni, industriali, manager, intellettuali, che parlano di meritocrazia ma poi dietro a queste parole si scopre il baratro della più squallida logica di corte». Il filosofo liberale incentra il discorso sull'economia: «La democrazia economica consiste nel fatto che in un libero mercato funzionante il consumatore è sovrano. Lo studioso Ludwig Von Mises scriveva nel suo saggio L'azione umana: "Nel mercato ciò che ha da esser prodotto non sono né gli imprenditori né gli agricoltori né i capitalisti a deciderlo, ma i consumatori"». Antiseri passa quindi ad un'analisi filologica: «La logica del mercato è quella della competizione, cumpetere, ovvero, come ha ribadito Michael Novak, "cercare insieme la soluzione migliore in modo agonistico". La competizione avvia lo sviluppo della scienza, della democrazia e del mercato». Di qui, secondo Antiseri, deriva il fatto che «le teorie migliori sono frutto di competizione, la più alta forma di collaborazione e che premia il merito». Ma quale spazio rimane per l'altruismo evangelico? «La competizione è una forma di solidarietà. È stato proprio Von Hayek, ma anche Rosmini, Sturzo, Einaudi e Röpke, a sostenere che la società aperta deve avere la massima attenzione ai più svantaggiati. Tale societa può permetterselo, sostiene Hayek, perché è ricca». Insomma, secondo Antiseri, «senza competizione ci sono poche competenze e nessuna eccellenza».
«II problema è sempre la confusione di pensiero», annota Stefano Zamagni, docente di Economia politica all'università di Bologna. «Si confondono meritocrazia e meritorietà: la seconda è un concetto tipicamente cattolico. Basta pensare alla parabola evangelica sui talenti, dove colui che ha ricevuto un solo talento, e non l'ha fatto fruttificare, vede quel bene dato a chi ne aveva 5 moltiplicati fino a 10! Meritorietà significa dare in base al merito, ed è indubbiamente un valore». E la meritocrazia? «È un'altra cosa. E su questo - precisa Zamagni - Bazoli ha ragione da vendere. Meritocrazia si oppone a democrazia, perché assegna il potere ai migliori. Invece la democrazia significa "potere del popolo". Lo indica bene Aristotele nella sua Politica: se diamo l'autorità ai più bravi si rischia l'oligarchia, qualcosa di illiberale».
Luca Diotallevi, docente di Sociologia della religione all'università di Roma Tre, tralascia ogni diplomazia e afferma: «La riflessione di Bazoli è quasi preoccupante». E prosegue: «Ha il merito di essere molto chiara: contrasta la finalizzazione al profitto dell'attività economica e rivaluta in modo radicale il concetto di uguaglianza. Ma queste due affermazioni potrebbero essere oggetto di una critica teologica perché, in tal forma, non si trovano nel magistero della Chiesa». Il sociologo umbro aggiunge: «L'antropologia cristiana, basata sul valore assoluto della persona umana e della differenza (pensiamo a uomo/donna) con pari dignità, non è riconducibile al concetto di uguaglianza. L'esperienza cristiana è antiegualitaria». Diotallevi definisce «un classico pregiudizio teologico, irricevibile però, l'idea che trafficare i propri talenti e realizzarsi come persone sia sbagliato. Il disinteresse non è una categoria cristiana, la gratuità è un'altra cosa. Il motore dell'economia è la realizzazione personale e, in senso cattolico, è genuinamente buona. Certo, poi esistono la politica e le leggi affinchè questa aspirazione non deragli».
«La meritocrazia è un principio che non esiste nella dottrina sociale della Chiesa»: è perentorio, a sua volta, monsignor Mario Toso, già rettore della Pontificia università salesiana e neosegretario Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace. «Nella dottrina cattolica c'è il concetto di remunerazione, citato da Giovanni XXIII, che supera l'idea di salario. Esso indica il fatto che un operaio viene pagato anche per il fatto di essere padre di famiglia o perché ha realizzato bene il suo lavoro. Oggi il merito viene inteso come un principio che discrimina e premia solo chi è virtuoso. In questo modo chi è in grado di fare meno viene escluso: questo è diventato anche, purtroppo, il cavallo di battaglia della politica attuale». Mentre invece, secondo Toso, sono ben altri i principi che contano nella formulazione teorico-sociale della Chiesa: «Il bisogno, anzitutto: questo è il valore fondamentale per ogni politica. Il merito crea più ingiustizia della giustizia che dice di perseguire». Secondo il filosofo salesiano, in questi anni si è vista un'applicazione concreta di tale scelta di principio: «Non va escluso chi non è intellettualmente capace o chi ha il cervello nelle mani invece che nella testa. E invece la politica ha smesso di sostenere le scuole professionali che andavano incontro a queste persone. Cavalcare l'idea del merito in senso assoluto, senza tener conto dei bisogni reali delle persone, porta ad una società di esclusione e ingiustizia».
Il concetto di merito è entrato ormai a pieno titolo nel dibattito pubblico e si è affermato - almeno in teoria - come un valore da perseguire nelle (auspicate) riforme del Belpaese. Ma ora c'è chi mette in forte dubbio che la meritocrazia possa conciliarsi con i valori del Vangelo. Nei giorni scorsi, in un intervento su questo giornale, Giovanni Bazoli, presidente di Banca Intesa San Paolo, chiedeva una «nuova e spregiudicata riflessione» su tale questione, in particolare domandandosi se «una concezione etica dell'economia che assolutizzi il primato del merito ed esalti la competizione al fine di selezionare i più bravi e i più forti sia aderente ai principi evangelici». A Bazoli replicava, sul Riformista di domenica scorsa, l'economista Alberto Mingardi, direttore dell'Istituto Bruno Leoni di Torino, che ha qualificato come «curioso» l'interrogativo del banchiere bresciano.
Ma meritocrazia e Vangelo confliggono o s'accordano? Il filosofo Dario Antiseri, docente di Metodologia delle scienze sociali all'università Luiss, propende per la seconda. Anzitutto Antiseri se la prende con quei «soloni, industriali, manager, intellettuali, che parlano di meritocrazia ma poi dietro a queste parole si scopre il baratro della più squallida logica di corte». Il filosofo liberale incentra il discorso sull'economia: «La democrazia economica consiste nel fatto che in un libero mercato funzionante il consumatore è sovrano. Lo studioso Ludwig Von Mises scriveva nel suo saggio L'azione umana: "Nel mercato ciò che ha da esser prodotto non sono né gli imprenditori né gli agricoltori né i capitalisti a deciderlo, ma i consumatori"». Antiseri passa quindi ad un'analisi filologica: «La logica del mercato è quella della competizione, cumpetere, ovvero, come ha ribadito Michael Novak, "cercare insieme la soluzione migliore in modo agonistico". La competizione avvia lo sviluppo della scienza, della democrazia e del mercato». Di qui, secondo Antiseri, deriva il fatto che «le teorie migliori sono frutto di competizione, la più alta forma di collaborazione e che premia il merito». Ma quale spazio rimane per l'altruismo evangelico? «La competizione è una forma di solidarietà. È stato proprio Von Hayek, ma anche Rosmini, Sturzo, Einaudi e Röpke, a sostenere che la società aperta deve avere la massima attenzione ai più svantaggiati. Tale societa può permetterselo, sostiene Hayek, perché è ricca». Insomma, secondo Antiseri, «senza competizione ci sono poche competenze e nessuna eccellenza».
«II problema è sempre la confusione di pensiero», annota Stefano Zamagni, docente di Economia politica all'università di Bologna. «Si confondono meritocrazia e meritorietà: la seconda è un concetto tipicamente cattolico. Basta pensare alla parabola evangelica sui talenti, dove colui che ha ricevuto un solo talento, e non l'ha fatto fruttificare, vede quel bene dato a chi ne aveva 5 moltiplicati fino a 10! Meritorietà significa dare in base al merito, ed è indubbiamente un valore». E la meritocrazia? «È un'altra cosa. E su questo - precisa Zamagni - Bazoli ha ragione da vendere. Meritocrazia si oppone a democrazia, perché assegna il potere ai migliori. Invece la democrazia significa "potere del popolo". Lo indica bene Aristotele nella sua Politica: se diamo l'autorità ai più bravi si rischia l'oligarchia, qualcosa di illiberale».
Luca Diotallevi, docente di Sociologia della religione all'università di Roma Tre, tralascia ogni diplomazia e afferma: «La riflessione di Bazoli è quasi preoccupante». E prosegue: «Ha il merito di essere molto chiara: contrasta la finalizzazione al profitto dell'attività economica e rivaluta in modo radicale il concetto di uguaglianza. Ma queste due affermazioni potrebbero essere oggetto di una critica teologica perché, in tal forma, non si trovano nel magistero della Chiesa». Il sociologo umbro aggiunge: «L'antropologia cristiana, basata sul valore assoluto della persona umana e della differenza (pensiamo a uomo/donna) con pari dignità, non è riconducibile al concetto di uguaglianza. L'esperienza cristiana è antiegualitaria». Diotallevi definisce «un classico pregiudizio teologico, irricevibile però, l'idea che trafficare i propri talenti e realizzarsi come persone sia sbagliato. Il disinteresse non è una categoria cristiana, la gratuità è un'altra cosa. Il motore dell'economia è la realizzazione personale e, in senso cattolico, è genuinamente buona. Certo, poi esistono la politica e le leggi affinchè questa aspirazione non deragli».
«La meritocrazia è un principio che non esiste nella dottrina sociale della Chiesa»: è perentorio, a sua volta, monsignor Mario Toso, già rettore della Pontificia università salesiana e neosegretario Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace. «Nella dottrina cattolica c'è il concetto di remunerazione, citato da Giovanni XXIII, che supera l'idea di salario. Esso indica il fatto che un operaio viene pagato anche per il fatto di essere padre di famiglia o perché ha realizzato bene il suo lavoro. Oggi il merito viene inteso come un principio che discrimina e premia solo chi è virtuoso. In questo modo chi è in grado di fare meno viene escluso: questo è diventato anche, purtroppo, il cavallo di battaglia della politica attuale». Mentre invece, secondo Toso, sono ben altri i principi che contano nella formulazione teorico-sociale della Chiesa: «Il bisogno, anzitutto: questo è il valore fondamentale per ogni politica. Il merito crea più ingiustizia della giustizia che dice di perseguire». Secondo il filosofo salesiano, in questi anni si è vista un'applicazione concreta di tale scelta di principio: «Non va escluso chi non è intellettualmente capace o chi ha il cervello nelle mani invece che nella testa. E invece la politica ha smesso di sostenere le scuole professionali che andavano incontro a queste persone. Cavalcare l'idea del merito in senso assoluto, senza tener conto dei bisogni reali delle persone, porta ad una società di esclusione e ingiustizia».