Appunti di crisi
di Paolo Rodari
L’arrivo dei francescani a Castelgandolfo, sabato prossimo 18 aprile, in occasione degli ottocento anni dell’approvazione della Regola da parte di Papa Innocenzo III non è cosa da poco. Al Pontefice, i francescani, hanno sempre offerto indefessa obbedienza e sta innanzitutto qui, prima che altrove, il segreto di un ordine tra i più amati dagli uomini di tutto il mondo. Lo stesso Francesco d’Assisi, infatti, questo prima d’altro ha lasciato ai suoi: obbedienza incondizionata al «signor Papa», così lo chiamava, unica garanzia della giustezza del proprio agire.
E oggi, ottocento anni dopo l’inizio di tutto, è probabilmente questa vocazione a essere le prime «truppe del Pontefice» nel mondo che i francescani provano ancora una volta a riscoprire. Perché non c’è francescanesimo senza obbedienza al Pontefice. Non c’è missione francescana senza il mandato di colui che guida la Chiesa.
La totale, a tratti maniacale, sottomissione di Francesco al Papa nasce da un innamoramento. Quello dello stesso Francesco nei confronti di Cristo. Occorre dirlo: Francesco s’innamorò di Cristo. Per lui, solo per lui, divenne povero come i più poveri. Un “alter Christus” disse qualcuno tempo dopo. E, infatti, se non ci fosse stato questo innamoramento, senz’altro il benestante Francesco non avrebbe lasciato una vita di agiatezza e piaceri.
L’amore di Francesco per Cristo era verticale. Tutti gli altri amori, quindi, discendevano da questo primo amore. Per questo motivo obbediva al Papa: perché soltanto obbedendogli aveva la certezza di seguire il suo innamorato, Cristo. E lo diceva anche ai suoi discepoli: obbedendo al Papa, ai vescovi e ai superiori si è sicuri della giustezza della strada intrapresa.
Amore verticale. Se non si capisce questa verticalità non si capisce il francescanesimo: molteplici scissioni in rami e sotto rami. Prima gli spirituali e i conventuali. Poi il Terzo Ordine. Quindi i cappuccini e via con una serie di riforme e controriforme tutte accomunate da un’unica e sola caratteristica: la ricerca della purezza del francescanesimo. Ovvero il ritorno continuo e incessante verso quell’innamoramento totale e verticale che caratterizzò la vita di Francesco dal momento della sua conversione in poi. Questo è il francescanesimo: una continua ricerca dell’origine di tutto.
Francesco vedeva Cristo in tutte le cose. Ogni cosa rimandava a Cristo. Prima di ogni cosa c’era Cristo e Francesco lo sapeva trovare innanzitutto nel santissimo sacramento. Quando peregrinava per i boschi, le valli e le pianure, se da lontano scorgeva un campanile, si buttava in ginocchio. E poi entrava nella chiesa e rimaneva del tempo in adorazione.
Dopo Cristo, in discesa verticale, c’era tutto il resto. Un posto particolare lo aveva la Madonna. Colei che il Vaticano II - parafrasando Francesco - definisce nella costituzione dogmatica sulla Chiesa, «tutta gloriosa, senza macchia né ruga». Lei era per lui il modello di Chiesa ideale. A lei si rifaceva. La venerava come colei che aveva avuto il privilegio di portare nel grembo il figlio di Dio.
E poi i sacerdoti. Si dice che Francesco cercasse di confessarsi dai più indegni. Dai sacerdoti meno fedeli, quelli macchiati dai peccati più nefandi. Perché in questo modo faceva due cose: si ricordava della propria indegnità, del non essersi sentito degno di accedere al sacerdozio (arrivò soltanto al diaconato) e, nello stesso tempo, richiamava i preti alla loro dignità, al valore della loro scelta di vita. I francescani sono sempre stati eccellenti predicatori e, in questo senso, i primi ad accorrere in aiuto dei preti secolari. Non a caso, secondo Benedetto XVI, «tutta la vicenda di Francesco è racchiusa nelle parole con cui il crocifisso di San Damiano invia Francesco a riparare la Chiesa». Riparare la Chiesa. A cominciare dal suo cuore: i sacerdoti.
Quindi venivano gli altri uomini e il mondo. Dunque in tutto, soprattutto nei poveri, vedeva Cristo. Si piegava sui poveri perché i poveri erano Cristo. Non c’era «terzomondismo» in lui. Solo amore a Cristo. Tanto che Cristo lo premiò. Ecco cosa fece per lui. Lo dice Dante nella Divina Commedia, Paradiso, canto XI: « Nel crudo sasso intra Tevere ed Arno da Cristo prese l’ultimo sigillo che le sue membra due anni portarno». Da Cristo prese l’ultimo sigillo, ovvero le stigmate, uno dei pochissimi casi nella bimillenaria storia della Chiesa.
Ancora, oggi, ottocento anni dopo l’approvazione della Regola, ai francescani è chiesto di guardare al loro fondatore. E di essere ciò che il loro carisma vuole. Pur divisi in molteplici rivoli, pur calanti in molte province del mondo e numerosi in poche altre, è questa purezza originaria che debbono cercare.
Benedetto XVI, del resto, non può che volerli così: nelle strade, mendicanti nel mondo con in saccoccia soltanto la voglia di annunciare il Vangelo, di sbugiardare, come faceva Francesco, la menzogna del mondo. La voglia di dire «pane al pane, vino al vino»: «Cristo è la verità. Ogni altra via è falsa». La voglia di condannare le eresie, le false dottrine, per amore della verità. Come i domenicani dovrebbero scardinare il torpore che pervade accademie e università per insegnare dove stia la vera dottrina, così i francescani dovrebbero portare nelle strade l’allegria del cristianesimo, e cioè la gioia che scaturisce dalla certezza che Cristo è vero Dio e vero uomo. Francesco lo disse pure al feroce Saladino. Chissà chi, tra i francescani che vivono vicino ai musulmani, ha il coraggio di fare la medesima cosa.
Guardare al fondatore significa anche scardinare la falsa lettura che della sua figura e del suo carisma è stata messa in opera nei secoli. Significa non sostituire l’annuncio della verità proprio del francescanesimo con un indistinto ecumenismo. San Francesco non è sinonimo di pacifismo, d’irenismo, di sincretismo o d’ecologismo. È altro. A Saladino chiese la conversione, prima che la mano. Ma certamente gli stessi francescani lo sanno. E sanno bene che qui sta il futuro del loro ordine: il dissolvimento o la rinascita. Nell’essere “truppe”, “milizie” che, in obbedienza al Papa, portano nel mondo la verità.
Del resto lo disse benissimo Benedetto XVI nel 2006, quando per due volte tornò sulla figura di san Francesco proponendo, di fatto, una nuova ermeneutica del santo. Lo fece il 31 agosto, parlando ai preti della diocesi di Albano. E il 4 settembre inviando un messaggio al vescovo di Assisi, Domenico Sorrentino, in occasione dell’ottavo centenario della conversione di Francesco. Ai preti di Albano il Papa ha detto che Francesco non «era un ambientalista o un pacifista. Era soprattutto un uomo convertito». Dire che era un ambientalista o un pacifista è «un abuso». Mentre, sempre di Francesco, nel messaggio al vescovo di Assisi il Papa aveva parlato così: «La testimonianza che egli rese nel suo tempo ne fa un naturale punto di riferimento per quanti anche oggi coltivano l’ideale della pace, del rispetto della natura, del dialogo tra le persone, tra le religioni e le culture. È tuttavia importante ricordare, se non si vuole tradire il suo messaggio, che fu la scelta radicale di Cristo a fornirgli la chiave di comprensione della fraternità a cui tutti gli uomini sono chiamati, e a cui anche le creature inanimate - da “fratello sole” a “sorella luna” - in qualche modo partecipano».