La flessibilita' retributiva fa salire la produttivita'
di Fabio G. Angelini
(Il presente articolo rappresenta una rielaborazione dell'articolo apparso su "Il Giornale" del 30 dicembre 2007)
Se il lavoro rappresenta la situazione esistenziale nella quale per eccellenza la persona manifesta la propia dinamica umana socialmente piu’ rilevante, allora vuol dire che sarebbe civilmente irresponsabile non considerare le trasformazioni che negli ultimi anni hanno investito il rapporto uomo-lavoro. Tali trasformazioni non sono soltanto l’esito di una presunta maggiore o minore coscienza di classe da parte del lavoratore (dipende dalla prospettiva dell’osservatore), ma evidenziano una radicale evoluzione del rapporto stato-cittadino. L’organizzazione del lavoro e con essa l’articolazione delle relazioni industriali e sindacali hanno riflettutto il passaggio da un modello classico che chiameremmo “servo-padrone” – migliorando progressivamente e possibilmente le condizioni economiche e sociali del lavoro grazie all’opera congiunta dei sindacati dei lavoratori e di quelli datoriali, ad un modello il cui paradigma riflette le ragioni del rincipio di sussdiarieta’. In primo luogo, in forza di tale principio, il suddetto binomio perde le caratteristiche della desueta ed ideologica relazione “servo-padrone” per radicarsi nelle relazioni di cittadinanza tra le parti che compongono la variegata “societa´civile”. In secondo luogo, cio’ che determina l’ordine in una societa’ civile articolata secondo il principio di sussidiarieta’ e’ la consapevolezza logica, morale e politica-economica che le conoscenze disperse di tempo e di luogo necessitano inevitabilmente dell’individuazione di inediti centri decisionali sempre piu’ prossimi alle rispettive parti che avvertono l’esigenza della soluzione del bisogno stesso. Dunque, se il lavoro e’ causa efficiente dell’edificazione di una societa’ civile libera e virtuosa, la riarticolazione delle relazioni sindacali su base sussidiaria rappresenta a pieno titolo il fondamento del passaggio dal centralistico, diseconomico ed incivile (in quanto anti-sociale) “welfare state” al piu’ umano, cicile ed economicamente produttivo “welfare society”: la ricerca del benessere civile che tenga conto della liberta’ e della dipendenza reciproca di ciascun a persona.
Il dibattito degli ultimi giorni sulla proposta (tutt'altro che innovativa) della Lega di ritornare alle "gabbie salariali" hanno riacceso i riflettori sulla questione salariale e, parallelamente, accellerato il dialogo, seppur per ora informale, tra Governo, Confindustria e Sindacati sul tema della riforma della contrattazione collettiva. Un dibattito, peraltro, che potrebbe trovare nuovi spunti da una più approfondita analisi della lettera encliclica "caritas in veritate" e, in generale, della dottrina sociale della Chiesa.
Sebbene per oltre cinquant’anni il contratto collettivo parametro sia riuscito a garantire al lavoratore ed alla sua famiglia una retribuzione tale da assicurargli un’esistenza libera e dignitosa, oggi non è più così. È cambiato il contesto economico di riferimento, il ruolo dello Stato nell’economia, le esigenze di un mondo produttivo sempre più esposto alla competizione internazionale.
L’accordo del 1993 ha previsto un doppio livello di contrattazione: uno nazionale, inderogabile, ed uno aziendale collegato all’andamento della produttività. Ne è scaturito un sistema per cui i contratti collettivi nazionali, dovendo assicurare l’uniformità del trattamento retributivo su un territorio nazionale tutt’altro che economicamente omogeneo, fissano salari normalmente bassi che, almeno in teoria, dovrebbero essere incrementati in sede di contrattazione integrativa aziendale.
Vero è, però, che ciò avviene solo nel 10% dei casi con la conseguenza che in nome dell’uniformità del trattamento retributivo e dell’ideologia vengono penalizzati i lavoratori delle piccole e medie imprese: l’asse portante del sistema imprenditoriale italiano.
Se ciò non bastasse v’è un altro aspetto da considerare. Lo status quo non solo non tutela i lavoratori delle imprese più piccole che generalmente non applicano la contrattazione di secondo livello ma, non permettendo investimenti sul capitale umano, non favorisce la competitività del nostro sistema produttivo.
Ecco spiegato, almeno in parte, il perché i nostri salari sono i più bassi d’europa, le imprese non reggono la competizione internazionale, i consumi non crescono e la confluttualità tra datori di lavoro e lavoratori ha raggiunto livelli ormai insostenibili.
Che fare allora per risolvere la questione salariale senza pregiudicare gli interessi dell’impresa?
Qualunque soluzione si voglia adottare, il nodo centrale da sciogliere resta la produttività del lavoro ed il passaggio da una politica sindacale conflittuale ad una logica di condivisione dei lavoratori alle sorti dell’impresa. Per questo, occorre puntare sulla principale tra le risorse economiche: il capitale umano, la voglia di lavorare, la creatività, l’inventiva e l’imprenditorialità dei lavoratori.
Ciò significa, concretamente, fare due operazioni.
In primo luogo, riformare la contrattazione abbandonando quell’idea secondo cui la giusta retribuzione può essere fissata solo a livello nazionale e non a livello territoriale o aziendale. In tal senso, fermo restando il doppio livello di contrattazione, occorrerebbe prevedere che il contratto collettivo nazionale pur continuando a determinare i livelli minimi di retribuzione sia derogabile, anche in negativo, in sede di contrattazione integrativa (regionale, provinciale o aziendale) in presenza di particolari esigienze del mondo produttivo, dei lavoratori o delle politiche di sviluppo locale. Ciò significherebbe spostare il baricentro della contrattazione permettendo così: a quella nazionale di fissare livelli retributivi decisamente più elevati; e a quella integrativa di dar vita a modelli sperimentali di assetto dei rapporti di lavoro diversi rispetto a quelli stabiliti nel contratto nazionale, maggiormente coerenti con le caratteristiche territoriali e capaci di realizzare effettivamente uno scambio virtuoso tra produttività e salario.
Si tratterebbe, in altri termini, di dar vita ad un sistema di contrattazione capace non solo di ridistribuire ma anche e soprattutto di creare nuova ricchezza e benessere attraverso una migliore allocazione delle risorse.
In secondo luogo, superare il principio di omnicomprensività della retribuzione in sede di prelievo fiscale e previdenziale dando vita ad un sistema tributario (e ciò a maggior ragione in vista dell’attuazione del federalismo fiscale) capace di incentivare la produttività del lavoro attraverso un efficace sistema di sgravi ed agevolazioni fiscali.
Su queste tematiche e proposte, il Centro Studi Tocqueville-Acton è pronto ad avviare una serie di iniziative ed incontri di studio con il coinvolgimento di sindacati e mondo politico. La questione salariale, infatti, può essere affrontata e risolta solo attraverso interventi strutturali sufficientemente lungimiranti, coerenti e condivisi.
(Il presente articolo rappresenta una rielaborazione dell'articolo apparso su "Il Giornale" del 30 dicembre 2007)
Se il lavoro rappresenta la situazione esistenziale nella quale per eccellenza la persona manifesta la propia dinamica umana socialmente piu’ rilevante, allora vuol dire che sarebbe civilmente irresponsabile non considerare le trasformazioni che negli ultimi anni hanno investito il rapporto uomo-lavoro. Tali trasformazioni non sono soltanto l’esito di una presunta maggiore o minore coscienza di classe da parte del lavoratore (dipende dalla prospettiva dell’osservatore), ma evidenziano una radicale evoluzione del rapporto stato-cittadino. L’organizzazione del lavoro e con essa l’articolazione delle relazioni industriali e sindacali hanno riflettutto il passaggio da un modello classico che chiameremmo “servo-padrone” – migliorando progressivamente e possibilmente le condizioni economiche e sociali del lavoro grazie all’opera congiunta dei sindacati dei lavoratori e di quelli datoriali, ad un modello il cui paradigma riflette le ragioni del rincipio di sussdiarieta’. In primo luogo, in forza di tale principio, il suddetto binomio perde le caratteristiche della desueta ed ideologica relazione “servo-padrone” per radicarsi nelle relazioni di cittadinanza tra le parti che compongono la variegata “societa´civile”. In secondo luogo, cio’ che determina l’ordine in una societa’ civile articolata secondo il principio di sussidiarieta’ e’ la consapevolezza logica, morale e politica-economica che le conoscenze disperse di tempo e di luogo necessitano inevitabilmente dell’individuazione di inediti centri decisionali sempre piu’ prossimi alle rispettive parti che avvertono l’esigenza della soluzione del bisogno stesso. Dunque, se il lavoro e’ causa efficiente dell’edificazione di una societa’ civile libera e virtuosa, la riarticolazione delle relazioni sindacali su base sussidiaria rappresenta a pieno titolo il fondamento del passaggio dal centralistico, diseconomico ed incivile (in quanto anti-sociale) “welfare state” al piu’ umano, cicile ed economicamente produttivo “welfare society”: la ricerca del benessere civile che tenga conto della liberta’ e della dipendenza reciproca di ciascun a persona.
Il dibattito degli ultimi giorni sulla proposta (tutt'altro che innovativa) della Lega di ritornare alle "gabbie salariali" hanno riacceso i riflettori sulla questione salariale e, parallelamente, accellerato il dialogo, seppur per ora informale, tra Governo, Confindustria e Sindacati sul tema della riforma della contrattazione collettiva. Un dibattito, peraltro, che potrebbe trovare nuovi spunti da una più approfondita analisi della lettera encliclica "caritas in veritate" e, in generale, della dottrina sociale della Chiesa.
Sebbene per oltre cinquant’anni il contratto collettivo parametro sia riuscito a garantire al lavoratore ed alla sua famiglia una retribuzione tale da assicurargli un’esistenza libera e dignitosa, oggi non è più così. È cambiato il contesto economico di riferimento, il ruolo dello Stato nell’economia, le esigenze di un mondo produttivo sempre più esposto alla competizione internazionale.
L’accordo del 1993 ha previsto un doppio livello di contrattazione: uno nazionale, inderogabile, ed uno aziendale collegato all’andamento della produttività. Ne è scaturito un sistema per cui i contratti collettivi nazionali, dovendo assicurare l’uniformità del trattamento retributivo su un territorio nazionale tutt’altro che economicamente omogeneo, fissano salari normalmente bassi che, almeno in teoria, dovrebbero essere incrementati in sede di contrattazione integrativa aziendale.
Vero è, però, che ciò avviene solo nel 10% dei casi con la conseguenza che in nome dell’uniformità del trattamento retributivo e dell’ideologia vengono penalizzati i lavoratori delle piccole e medie imprese: l’asse portante del sistema imprenditoriale italiano.
Se ciò non bastasse v’è un altro aspetto da considerare. Lo status quo non solo non tutela i lavoratori delle imprese più piccole che generalmente non applicano la contrattazione di secondo livello ma, non permettendo investimenti sul capitale umano, non favorisce la competitività del nostro sistema produttivo.
Ecco spiegato, almeno in parte, il perché i nostri salari sono i più bassi d’europa, le imprese non reggono la competizione internazionale, i consumi non crescono e la confluttualità tra datori di lavoro e lavoratori ha raggiunto livelli ormai insostenibili.
Che fare allora per risolvere la questione salariale senza pregiudicare gli interessi dell’impresa?
Qualunque soluzione si voglia adottare, il nodo centrale da sciogliere resta la produttività del lavoro ed il passaggio da una politica sindacale conflittuale ad una logica di condivisione dei lavoratori alle sorti dell’impresa. Per questo, occorre puntare sulla principale tra le risorse economiche: il capitale umano, la voglia di lavorare, la creatività, l’inventiva e l’imprenditorialità dei lavoratori.
Ciò significa, concretamente, fare due operazioni.
In primo luogo, riformare la contrattazione abbandonando quell’idea secondo cui la giusta retribuzione può essere fissata solo a livello nazionale e non a livello territoriale o aziendale. In tal senso, fermo restando il doppio livello di contrattazione, occorrerebbe prevedere che il contratto collettivo nazionale pur continuando a determinare i livelli minimi di retribuzione sia derogabile, anche in negativo, in sede di contrattazione integrativa (regionale, provinciale o aziendale) in presenza di particolari esigienze del mondo produttivo, dei lavoratori o delle politiche di sviluppo locale. Ciò significherebbe spostare il baricentro della contrattazione permettendo così: a quella nazionale di fissare livelli retributivi decisamente più elevati; e a quella integrativa di dar vita a modelli sperimentali di assetto dei rapporti di lavoro diversi rispetto a quelli stabiliti nel contratto nazionale, maggiormente coerenti con le caratteristiche territoriali e capaci di realizzare effettivamente uno scambio virtuoso tra produttività e salario.
Si tratterebbe, in altri termini, di dar vita ad un sistema di contrattazione capace non solo di ridistribuire ma anche e soprattutto di creare nuova ricchezza e benessere attraverso una migliore allocazione delle risorse.
In secondo luogo, superare il principio di omnicomprensività della retribuzione in sede di prelievo fiscale e previdenziale dando vita ad un sistema tributario (e ciò a maggior ragione in vista dell’attuazione del federalismo fiscale) capace di incentivare la produttività del lavoro attraverso un efficace sistema di sgravi ed agevolazioni fiscali.
Su queste tematiche e proposte, il Centro Studi Tocqueville-Acton è pronto ad avviare una serie di iniziative ed incontri di studio con il coinvolgimento di sindacati e mondo politico. La questione salariale, infatti, può essere affrontata e risolta solo attraverso interventi strutturali sufficientemente lungimiranti, coerenti e condivisi.