Caritas in veritate: un messaggio di antropologia creativa
di Antonio Campati – Luca G. Castellin
Nel 1926, Harold Laski ha osservato che «una vera politica è soprattutto una filosofia della storia». Al fondo di ogni ideologia e prassi politica, l’intellettuale britannico riscontrava la presenza di una speciale e specifica visione del mondo e dell’uomo. L’evoluzione del pensiero politico moderno ha segnalato l’estrema ragionevolezza di una tale affermazione, svelando, al tempo stesso, con grande chiarezza l’idea di natura umana che da ormai cinque secoli è andata sempre più diffondendosi nel mondo, in particolare all’interno della civiltà occidentale: ossia l’autosufficienza dell’uomo.
La Caritas in Veritate di Benedetto XVI – un’enciclica sociale lungamente attesa, ma che potrebbe difficilmente essere compresa, quando non chiaramente fraintesa, al di fuori della visione antropologica che la costituisce intimamente – muove innanzitutto da un fondamento differente. «Senza Dio» – afferma all’inizio delle sue conclusioni il Santo Padre – «l’uomo non sa dove andare e non riesce nemmeno a comprendere chi egli sia» (n. 78). Pur se dalla mentalità comune una tale affermazione può essere (ed effettivamente è) ritenuta un puro e irragionevole atto di fede, quasi un forzato disconoscimento della libertà anarchica post-moderna, essa costituisce il centro imprescindibile di quella mistione di «realismo e speranza» con cui Gian Maria Vian sull’ Osservatore Romano ha descritto sinteticamente il “carattere” del documento del Pontefice.
In effetti, mai come in questa stagione dell’Occidente che, con vistosa evidenza, per dirla con Ralf Dahrendorf, fatica a «quadrare il cerchio» fra benessere economico, coesione sociale e libertà politica, l’Enciclica di Benedetto XVI offre una bussola non solo per non smarrirsi nel mare del perpetuo presente, ma anche per rintracciare le coordinate lungo le quali dovrà (necessariamente) costruirsi uno sviluppo futuro dell’uomo e dei popoli con «occhi nuovi» e «cuore nuovo». Sin dai primi paragrafi, il Pontefice ribadisce, tenendolo in «grande considerazione», un concetto che, negli ultimi tempi, appare appesantito da una coltre di retorica stesa su di esso dalla politica, spesso in modo strumentale, per celare debolezze antiche e nuove: il bene comune, quale bene «legato al vivere sociale delle persone» (n. 7). «Volere il bene comune e adoperarsi per esso» - scrive il Santo Padre - «è esigenza di giustizia e di carità», pertanto impegnarsi per esso comporta da un lato «prendersi cura» e dall’altro «avvalersi» di quel complesso di istituzioni che strutturano il vivere sociale. Questo passaggio non rimanda esclusivamente a una prospettiva ideale, bensì è un vero invito all’azione: «ogni cristiano è chiamato a questa carità, nel modo della sua vocazione e secondo le sue possibilità d’incidenza nella pólis» (n. 7). Un auspicio che sottolinea come questa via istituzionale (o politica) della carità non è meno qualificata e incisiva di quella che si può incontrare nella società, nei suoi corpi intermedi, «direttamente, fuori delle mediazioni istituzionali della pólis».
Dal momento che «l’amore nella verità è una grande sfida per la Chiesa in un mondo in progressiva e pervasiva globalizzazione», il Pontefice – riprendendo coerentemente il messaggio di Paolo VI e Giovanni Paolo II – ribadisce non solo che la Chiesa «non ha soluzioni tecniche da offrire», né pretende «minimamente d’intromettersi nella vita politica degli Stati», ma anche e soprattutto che essa ha una «missione di verità da compiere, in ogni tempo ed evenienza per una società a misura dell’uomo, della sua dignità, della sua vocazione» (n. 9). Proprio nella consapevolezza che «purtroppo le ideologie negative fioriscono in continuazione», la preoccupazione principale del Pontefice è quella di garantire uno sviluppo umano integrale, il quale presuppone però «la libertà responsabile della persona e dei popoli» (n. 17). Affinché questa preoccupazione non si trasformi in un vano auspicio, la Chiesa, che «scruta i segni dei tempi e li interpreta», non si sottrae a un’analisi che coinvolge le trasformazioni politiche, economiche e sociali.
Se, invero, fino a pochi decenni fa, l’attività economica e la funzione politica si consumavano dentro i confini degli Stati nazionali poiché gli investimenti finanziari avevano una circolazione piuttosto limitata all’estero, oggi, il «potere politico degli Stati» ha subìto diverse modifiche dovendo far fronte «alle limitazioni che alla sua sovranità frappone il nuovo contesto economico-commerciale e finanziario internazionale» (n. 24). Ma nonostante queste evidenti trasformazioni dello spazio della politica e dell’economia, che vede un restringimento del primo a discapito del secondo, la crisi economica in atto sembra restituire, seppur costretta fatalmente dalle contingenze, allo Stato il ruolo di correttore di «errori e disfunzioni». Pertanto il Santo Padre auspica una rinnovata valutazione del ruolo dei pubblici poteri per far fronte alle «sfide del mondo moderno» senza dimenticare di rafforzare, contemporaneamente, quelle «nuove forme» di partecipazione alla politica nazionale e internazionale attraverso le Organizzazioni operanti nella società civile.
E però, nella costruzione di un nuovo ordine economico-produttivo, «socialmente responsabile e a misura d’uomo», non si possono dimenticare il «significato plurivalente» dell’ autorità politica caratterizzata da una struttura «distribuita e attivantesi su più piani» e lo Stato stesso poiché «ragioni di saggezza e prudenza» suggeriscono di non proclamarne troppo frettolosamente la fine. Anche perché, in diverse Nazioni la costruzione o la ricostruzione dello Stato continua ad essere «un elemento chiave del loro sviluppo», tant’è che «non è necessario che lo Stato abbia dappertutto le medesime caratteristiche»: al sostegno ai sistemi costituzionali deboli può affiancarsi contemporaneamente lo sviluppo di «altri soggetti politici, di natura culturale, sociale, territoriale e religiosa, accanto allo Stato» (n. 41).
Ma, proprio analizzando nel capitolo quinto gli ostacoli che possono frenare l’autentico sviluppo umano, il Pontefice sottolinea la permanenza di «retaggi culturali» che con la loro azione «ingessano la società in caste sociali statiche» (n. 55). Ebbene, la premura nel denunciare la presenza e la permanenza di «caste sociali statiche» chiama in causa, in modo particolare, la società e la politica italiana, ancora fortemente titubanti nel promuovere una sana, e non surrettizia (e men che meno esclusivamente annunciata) vivacità sociale e culturale. Infatti proprio il rafforzamento, negli ultimi anni, in quasi tutte le democrazie, di oligarchie disparate e potenti (causa principale della stagnazione degli stessi regimi democratici) va nella direzione esattamente opposta rispetto alla società desiderata e invocata dal Pontefice che, invece, deve basarsi sul dialogo fecondo fra la ragione, anche politica, che «ha sempre bisogno di essere purificata dalla fede» e la religione che «ha sempre bisogno di venire purificata dalla ragione» (n. 56). Scorgere dietro queste considerazioni il richiamo all’azione delle «minoranze creative» descritte da Arnold J. Toynbee – un’idea già ricordata dall’allora Cardinale Ratzinger – è, con molta probabilità, opportuno, soprattutto se a ciò si aggiunge il fatto che l’auspicato «governo della globalizzazione» deve essere «sussidiario e poliarchico, sia per non ledere la libertà sia per risultare concretamente efficace» (n. 57). Pertanto, in una società come quella attuale in cui «è diffusa la tendenza a relativizzare il vero» solamente il protagonismo di minoranze illuminate dai principi della Dottrina Sociale della Chiesa può sostenere il «vivere la carità nella verità» e quindi garantire una «buona società» e un «vero sviluppo umano integrale».
Nel 1926, Harold Laski ha osservato che «una vera politica è soprattutto una filosofia della storia». Al fondo di ogni ideologia e prassi politica, l’intellettuale britannico riscontrava la presenza di una speciale e specifica visione del mondo e dell’uomo. L’evoluzione del pensiero politico moderno ha segnalato l’estrema ragionevolezza di una tale affermazione, svelando, al tempo stesso, con grande chiarezza l’idea di natura umana che da ormai cinque secoli è andata sempre più diffondendosi nel mondo, in particolare all’interno della civiltà occidentale: ossia l’autosufficienza dell’uomo.
La Caritas in Veritate di Benedetto XVI – un’enciclica sociale lungamente attesa, ma che potrebbe difficilmente essere compresa, quando non chiaramente fraintesa, al di fuori della visione antropologica che la costituisce intimamente – muove innanzitutto da un fondamento differente. «Senza Dio» – afferma all’inizio delle sue conclusioni il Santo Padre – «l’uomo non sa dove andare e non riesce nemmeno a comprendere chi egli sia» (n. 78). Pur se dalla mentalità comune una tale affermazione può essere (ed effettivamente è) ritenuta un puro e irragionevole atto di fede, quasi un forzato disconoscimento della libertà anarchica post-moderna, essa costituisce il centro imprescindibile di quella mistione di «realismo e speranza» con cui Gian Maria Vian sull’ Osservatore Romano ha descritto sinteticamente il “carattere” del documento del Pontefice.
In effetti, mai come in questa stagione dell’Occidente che, con vistosa evidenza, per dirla con Ralf Dahrendorf, fatica a «quadrare il cerchio» fra benessere economico, coesione sociale e libertà politica, l’Enciclica di Benedetto XVI offre una bussola non solo per non smarrirsi nel mare del perpetuo presente, ma anche per rintracciare le coordinate lungo le quali dovrà (necessariamente) costruirsi uno sviluppo futuro dell’uomo e dei popoli con «occhi nuovi» e «cuore nuovo». Sin dai primi paragrafi, il Pontefice ribadisce, tenendolo in «grande considerazione», un concetto che, negli ultimi tempi, appare appesantito da una coltre di retorica stesa su di esso dalla politica, spesso in modo strumentale, per celare debolezze antiche e nuove: il bene comune, quale bene «legato al vivere sociale delle persone» (n. 7). «Volere il bene comune e adoperarsi per esso» - scrive il Santo Padre - «è esigenza di giustizia e di carità», pertanto impegnarsi per esso comporta da un lato «prendersi cura» e dall’altro «avvalersi» di quel complesso di istituzioni che strutturano il vivere sociale. Questo passaggio non rimanda esclusivamente a una prospettiva ideale, bensì è un vero invito all’azione: «ogni cristiano è chiamato a questa carità, nel modo della sua vocazione e secondo le sue possibilità d’incidenza nella pólis» (n. 7). Un auspicio che sottolinea come questa via istituzionale (o politica) della carità non è meno qualificata e incisiva di quella che si può incontrare nella società, nei suoi corpi intermedi, «direttamente, fuori delle mediazioni istituzionali della pólis».
Dal momento che «l’amore nella verità è una grande sfida per la Chiesa in un mondo in progressiva e pervasiva globalizzazione», il Pontefice – riprendendo coerentemente il messaggio di Paolo VI e Giovanni Paolo II – ribadisce non solo che la Chiesa «non ha soluzioni tecniche da offrire», né pretende «minimamente d’intromettersi nella vita politica degli Stati», ma anche e soprattutto che essa ha una «missione di verità da compiere, in ogni tempo ed evenienza per una società a misura dell’uomo, della sua dignità, della sua vocazione» (n. 9). Proprio nella consapevolezza che «purtroppo le ideologie negative fioriscono in continuazione», la preoccupazione principale del Pontefice è quella di garantire uno sviluppo umano integrale, il quale presuppone però «la libertà responsabile della persona e dei popoli» (n. 17). Affinché questa preoccupazione non si trasformi in un vano auspicio, la Chiesa, che «scruta i segni dei tempi e li interpreta», non si sottrae a un’analisi che coinvolge le trasformazioni politiche, economiche e sociali.
Se, invero, fino a pochi decenni fa, l’attività economica e la funzione politica si consumavano dentro i confini degli Stati nazionali poiché gli investimenti finanziari avevano una circolazione piuttosto limitata all’estero, oggi, il «potere politico degli Stati» ha subìto diverse modifiche dovendo far fronte «alle limitazioni che alla sua sovranità frappone il nuovo contesto economico-commerciale e finanziario internazionale» (n. 24). Ma nonostante queste evidenti trasformazioni dello spazio della politica e dell’economia, che vede un restringimento del primo a discapito del secondo, la crisi economica in atto sembra restituire, seppur costretta fatalmente dalle contingenze, allo Stato il ruolo di correttore di «errori e disfunzioni». Pertanto il Santo Padre auspica una rinnovata valutazione del ruolo dei pubblici poteri per far fronte alle «sfide del mondo moderno» senza dimenticare di rafforzare, contemporaneamente, quelle «nuove forme» di partecipazione alla politica nazionale e internazionale attraverso le Organizzazioni operanti nella società civile.
E però, nella costruzione di un nuovo ordine economico-produttivo, «socialmente responsabile e a misura d’uomo», non si possono dimenticare il «significato plurivalente» dell’ autorità politica caratterizzata da una struttura «distribuita e attivantesi su più piani» e lo Stato stesso poiché «ragioni di saggezza e prudenza» suggeriscono di non proclamarne troppo frettolosamente la fine. Anche perché, in diverse Nazioni la costruzione o la ricostruzione dello Stato continua ad essere «un elemento chiave del loro sviluppo», tant’è che «non è necessario che lo Stato abbia dappertutto le medesime caratteristiche»: al sostegno ai sistemi costituzionali deboli può affiancarsi contemporaneamente lo sviluppo di «altri soggetti politici, di natura culturale, sociale, territoriale e religiosa, accanto allo Stato» (n. 41).
Ma, proprio analizzando nel capitolo quinto gli ostacoli che possono frenare l’autentico sviluppo umano, il Pontefice sottolinea la permanenza di «retaggi culturali» che con la loro azione «ingessano la società in caste sociali statiche» (n. 55). Ebbene, la premura nel denunciare la presenza e la permanenza di «caste sociali statiche» chiama in causa, in modo particolare, la società e la politica italiana, ancora fortemente titubanti nel promuovere una sana, e non surrettizia (e men che meno esclusivamente annunciata) vivacità sociale e culturale. Infatti proprio il rafforzamento, negli ultimi anni, in quasi tutte le democrazie, di oligarchie disparate e potenti (causa principale della stagnazione degli stessi regimi democratici) va nella direzione esattamente opposta rispetto alla società desiderata e invocata dal Pontefice che, invece, deve basarsi sul dialogo fecondo fra la ragione, anche politica, che «ha sempre bisogno di essere purificata dalla fede» e la religione che «ha sempre bisogno di venire purificata dalla ragione» (n. 56). Scorgere dietro queste considerazioni il richiamo all’azione delle «minoranze creative» descritte da Arnold J. Toynbee – un’idea già ricordata dall’allora Cardinale Ratzinger – è, con molta probabilità, opportuno, soprattutto se a ciò si aggiunge il fatto che l’auspicato «governo della globalizzazione» deve essere «sussidiario e poliarchico, sia per non ledere la libertà sia per risultare concretamente efficace» (n. 57). Pertanto, in una società come quella attuale in cui «è diffusa la tendenza a relativizzare il vero» solamente il protagonismo di minoranze illuminate dai principi della Dottrina Sociale della Chiesa può sostenere il «vivere la carità nella verità» e quindi garantire una «buona società» e un «vero sviluppo umano integrale».