L’accordo di Copenhagen
di Alia K. Nardini
In due settimane, i negoziati di Copenhagen non sono stati in grado di produrre un compromesso che affrontasse in modo efficace e risolutivo il problema dell’inquinamento ambientale e del surriscaldamento globale. Solo l’intervento di Barack Obama ha salvato il summit dal totale fallimento, rendendo possibile un accordo – per quanto non legalmente vincolante – tra i 193 paesi partecipanti. Ma a che prezzo?
Il risultato raggiunto è stato definito accord, e non agreement – termine che indica la convergenza, e non l’unità di intenti. Che i vari paesi fossero in palese disaccordo era evidente dal protrarsi delle estenuanti quanto improduttive discussioni; sennonché Obama, per risolvere l’impasse, ha dovuto imporre la propria presenza presentandosi non invitato all’incontro a porte chiuse tra Cina, India, Brasile e Sud Africa, di fatto tagliando fuori da ogni consultazione decisiva sia l’Europa che i paesi economicamente più arretrati – tra i quali il sudanese Di-Aping leader del gruppo G77, che rappresenta gli interessi delle nazioni emergenti. Più specificamente, l’accordo di Copenhagen non produce alcuna normativa concreta né alcun parametro vincolante al quale la comunità internazionale debba attenersi: c’è effettivamente la volontà di impegnarsi per un contenimento delle emissioni nocive, nonché di mantenere il surriscaldamento globale a 2°C al di sopra dei livelli preindustriali entro il 2050, ma non è chiaro come e quando si creeranno le commissioni preposte alla vigilanza su tali parametri – né tantomeno quali azioni potranno venire intraprese nei confronti dei trasgressori.
In toni maggiormente ottimisti, va sottolineato l’impegno dei paesi più sviluppati a rispettare i tagli alle emissioni di agenti nocivi già sottoscritti in passato. È inoltre confermata la promessa per parte europea e americana di stanziare 100 miliardi di dollari l’anno fino al 2020 in aiuto delle nazioni più povere, affinché queste ultime possano fronteggiare i mutamenti climatici più drastici e combattere attivamente alcune pratiche a rischio sul proprio territorio – come ad esempio la deforestazione selvaggia. Tuttavia, anche in questo caso la natura morale e non legalmente vincolante degli impegni sottoscritti lascia adito a seri dubbi riguardo alla loro realizzazione.
È dunque inevitabile chiedersi, al netto delle polemiche, se tutto questo sia abbastanza. Non sulla base delle aspettative forse poco realistiche da parte dei gruppi ambientalisti, che premevano per una riduzione dei gas serra dell’80 per cento entro il 2050 da parte delle nazioni più sviluppate. Bensì guardando al fatto che, dopo il fallimento di Kyoto, si era intrapreso un cammino che indubbiamente guardava avanti, che riconosceva il valore intrinseco dell’ambiente per ogni persona e per ogni paese del mondo, con la volontà di andare oltre alle barriere commerciali e culturali: non certo al di là degli interessi economici particolaristici, ma in un processo attivo di mediazione tra diverse concezioni di ciò che è bene per tutti gli uomini, affinché si giungesse ad un compromesso nuovo per un mondo migliore. Tutto questo invece è fallito, trasformando Copenhagen in un mero palcoscenico sul quale ha trionfato la strategia politica, l’equilibrio di poteri, l’immagine. Il vero vincitore è Obama – anche se ciò è davvero poco lusinghiero.
In due settimane, i negoziati di Copenhagen non sono stati in grado di produrre un compromesso che affrontasse in modo efficace e risolutivo il problema dell’inquinamento ambientale e del surriscaldamento globale. Solo l’intervento di Barack Obama ha salvato il summit dal totale fallimento, rendendo possibile un accordo – per quanto non legalmente vincolante – tra i 193 paesi partecipanti. Ma a che prezzo?
Il risultato raggiunto è stato definito accord, e non agreement – termine che indica la convergenza, e non l’unità di intenti. Che i vari paesi fossero in palese disaccordo era evidente dal protrarsi delle estenuanti quanto improduttive discussioni; sennonché Obama, per risolvere l’impasse, ha dovuto imporre la propria presenza presentandosi non invitato all’incontro a porte chiuse tra Cina, India, Brasile e Sud Africa, di fatto tagliando fuori da ogni consultazione decisiva sia l’Europa che i paesi economicamente più arretrati – tra i quali il sudanese Di-Aping leader del gruppo G77, che rappresenta gli interessi delle nazioni emergenti. Più specificamente, l’accordo di Copenhagen non produce alcuna normativa concreta né alcun parametro vincolante al quale la comunità internazionale debba attenersi: c’è effettivamente la volontà di impegnarsi per un contenimento delle emissioni nocive, nonché di mantenere il surriscaldamento globale a 2°C al di sopra dei livelli preindustriali entro il 2050, ma non è chiaro come e quando si creeranno le commissioni preposte alla vigilanza su tali parametri – né tantomeno quali azioni potranno venire intraprese nei confronti dei trasgressori.
In toni maggiormente ottimisti, va sottolineato l’impegno dei paesi più sviluppati a rispettare i tagli alle emissioni di agenti nocivi già sottoscritti in passato. È inoltre confermata la promessa per parte europea e americana di stanziare 100 miliardi di dollari l’anno fino al 2020 in aiuto delle nazioni più povere, affinché queste ultime possano fronteggiare i mutamenti climatici più drastici e combattere attivamente alcune pratiche a rischio sul proprio territorio – come ad esempio la deforestazione selvaggia. Tuttavia, anche in questo caso la natura morale e non legalmente vincolante degli impegni sottoscritti lascia adito a seri dubbi riguardo alla loro realizzazione.
È dunque inevitabile chiedersi, al netto delle polemiche, se tutto questo sia abbastanza. Non sulla base delle aspettative forse poco realistiche da parte dei gruppi ambientalisti, che premevano per una riduzione dei gas serra dell’80 per cento entro il 2050 da parte delle nazioni più sviluppate. Bensì guardando al fatto che, dopo il fallimento di Kyoto, si era intrapreso un cammino che indubbiamente guardava avanti, che riconosceva il valore intrinseco dell’ambiente per ogni persona e per ogni paese del mondo, con la volontà di andare oltre alle barriere commerciali e culturali: non certo al di là degli interessi economici particolaristici, ma in un processo attivo di mediazione tra diverse concezioni di ciò che è bene per tutti gli uomini, affinché si giungesse ad un compromesso nuovo per un mondo migliore. Tutto questo invece è fallito, trasformando Copenhagen in un mero palcoscenico sul quale ha trionfato la strategia politica, l’equilibrio di poteri, l’immagine. Il vero vincitore è Obama – anche se ciò è davvero poco lusinghiero.