La nostra filosofia
Il ruolo dei cattolici-liberali nell'attuale quadro politico
di Rocco Buttiglione
E' diffusa fra i cattolici la convinzione che una politica cristiana debba necessariamente guardare a sinistra perché non possiamo non farci carico del problema dei poveri. La sinistra è dalla parte dei poveri e dunque i cristiani in politica devono stare a sinistra o quanto meno guardare a sinistra.
E' giusta ed accettabile questa convinzione?
Intanto è certamente giusto dire che il cristiano non può non stare dalla parte dei poveri. Il problema è piuttosto se la sinistra stia davvero dalla parte dei poveri e che cosa significa in verità stare dalla parte dei poveri. Cominciamo con questa seconda domanda: che cosa significa davvero “stare dalla parte dei poveri”. La risposta è in un certo senso intuitiva: vogliamo che ogni uomo abbia il necessario per vivere, che nessuno debba patire la fame o il freddo, che ciascuno abbia la possibilità di avere accesso alla cultura, cioè la possibilità di uno sviluppo integrale della propria personalità umana. Ci illumina a questo proposito una enciclica di Giovanni Paolo II, la Dives in Misericordia. Apparentemente non è una enciclica dedicata a dei temi sociali ma in realtà afferma un principio che tocca profondamente la nostra visione dell’ordine sociale. Potremo esprimere il suo messaggio in questo modo: c’ è qualcosa che è dovuto all’uomo per il fatto che è un uomo, a causa della sua eminente dignità. Ciò naturalmente non vuol dire che ogni uomo non debba lavorare per avere il necessario per vivere o che qualcuno abbia un diritto di vivere ozioso a spese della comunità. Nella vita vale il principio della giustizia commutativa: se vuoi qualcosa devi pagare in qualche modo ( fondamentalmente attraverso il lavoro) il suo prezzo. Ma che faremo di colui che non riesce a pagare? Come ci comporteremo con colui che ha bisogno di tutto e non ha nulla da dare in cambio del necessario per la sua vita? Possiamo limitarci a dire : “ sei un fannullone ed un fallito e ti lasciamo a morire al margine della strada?” Non possiamo a causa del valore trascendente di ogni persona umana. Dio stesso verrebbe a chiederci conto di quel suo figlio che noi abbiamo abbandonato. E cosa è dovuto a chi nel gioco del mercato e della concorrenza non ce l’ha fatta ed ha fatto fallimento? Non solo il necessario per non morire ma una seconda occasione, la possibilità di reinserirsi come membro utile ed attivo della società. In un’altra sua enciclica, la Laborem Exercens, Giovanni Paolo II parla del diritto dell’uomo al lavoro. Essere inserito nella società, avere accesso ai beni della terra, significa avere la possibilità di lavorare. L’uomo ha il dovere di lavorare (salvo solo il caso in cui le sue condizioni di salute non glielo consentano) ma l’uomo ha anche e proprio per questo il diritto di lavorare. In un’altra enciclica ancora, la Sollicitudio Rei Socialis, il Papa ci parla della proprietà dei mezzi di produzione. Dio ha creato la terra e la ha consegnata agli uomini perché attraverso il lavoro abbiano cura della sua bellezza e traggano da essa il proprio sostentamento. Dio ha dato tutta la terra a tutti gli uomini. Questo non vuol dire che la terra debba essere divisa in parti eguali fra tutti gli uomini. La ricchezza della nostra economia deriva dalla divisione del lavoro, dalle opere dell’ingegno umano assai più che dalla proprietà della terra. Sarebbe ingenuo pensare che tutta la ricchezza derivi dalla terra. Ancora più che dalla terra la ricchezza deriva dall’ingegno dell’uomo e dalle sue opere. Tuttavia rimane vero che la terra è un presupposto inevitabile di qualunque produzione. Dire che la terra è affidata a tutti gli uomini significa in realtà due cose: che nessuno può distruggere le risorse della terra ignorando i diritti delle future generazioni o anche quello dei contemporanei a vivere in un ambiente salubre e pulito e che nessuno deve essere tagliato fuori dalla grande famiglia del lavoro umano, deve rimanere privo della possibilità di guadagnarsi da vivere attraverso il lavoro. E’ facile dimostrare che questi principi della dottrina sociale cristiana sono interamente recepiti anche nella Costituzione della Repubblica Italiana. In cosa si differenziano questi principi da quelli della sinistra? Non è facile dirlo perché oggi esiste nella sinistra una grande confusione e non è facile trovare nella sinistra le posizioni più diverse, comprese quelle che abbiamo indicato come proprie della dottrina sociale cristiana. Per fare un po’ di chiarezza partiamo da Norberto Bobbio che ha indicato nella eguaglianza il punto di orientamento fondamentale della sinistra. Eguaglianza può significare la stessa cosa della solidarietà verso il povero e lo sforzo di aiutarlo a mettere in valore tutte le sue capacità uscendo dallo stato di povertà, ma di per sé eguaglianza può anche significare la invidia sociale che vuole livellare le condizioni del ricco a quelle del povero. Per una parte della sinistra la voglia di spossessare i ricchi è stata più forte di quella di migliorare le condizioni dei poveri e si è preferita una società di eguali nella povertà ad una società di diffuso benessere in cui alcuni fossero più ricchi di altri. Il fine della politica economica deve essere aumentare il benessere generale o aumentare l’eguaglianza? Certo, il concetto di benessere generale può essere ingannevole. E’ possibile che la ricchezza complessiva di una società aumenti ma in essa i poveri diventino più poveri ed i ricchi diventino più ricchi. Non potremmo accettare un società così. Ma cosa è male: semplicemente l’aumento della disuguaglianza ovvero il peggioramento delle condizioni di vita dei più poveri? Uno studioso americano che ha avuto molta fortuna anche ( anzi soprattutto) a sinistra, John Rawls, ha scritto che è eticamente difendibile il fatto che alcuni diventino più ricchi a condizione che nel processo nessuno diventi più povero e anzi alcuni diventino meno poveri. La questione della eguaglianza è strettamente connessa con quella del controllo dello stato sull’economia. Il modo migliore di accrescere la ricchezza, infatti, è in genere quello di lasciare libertà alla iniziativa economica dei cittadini. Ciascuno di sforzerà di migliorare le proprie condizioni, alcuni vi riusciranno meglio di altri, ma nel loro sforzo essi trascineranno dietro anche il resto della società. La ragione di questo sta nel fatto che la principale risorsa economica, più ancora che la terra, sta nella voglia di lavorare, nella creatività e nella inventiva degli uomini. Nel linguaggio della economia moderna questa si chiama imprenditorialità. E’ la capacità di inventare combinazioni produttive efficaci e di rischiare per realizzarle. Se il fine della politica economica è l’eguaglianza bisognerà tenere strettamente sotto controllo l’iniziativa privata, se il fine è il miglioramento delle condizioni di vita di tutti (anche se in modo diseguale) allora l’iniziativa privata andrà incoraggiata. Certo, sarà necessario richiamare gli imprenditori alla loro responsabilità sociale, perché alla fine la crescita torni davvero a beneficio di tutti, ma la loro attività dovrà essere valutata in linea di principio come positiva e dovrà essere sostenuta e stimolata dai poteri pubblici. Abbiamo così individuato due distinzioni di principio fra la posizione della sinistra e la nostra: Noi siamo per la solidarietà , la sinistra è tentata dalla invidia sociale. La sinistra è statalista ( per realizzare l’eguaglianza) noi siamo per la libertà di iniziativa e diamo in economia allo stato un ruolo sussidiario. L’eguaglianza come la sinistra è tentata di interpretarla, sta in contraddizione con l’idea di merito. Gli uomini sono tutti eguali fra loro in dignità ( è ciò che abbiamo spiegato con l’aiuto della enciclica Dives in Misericordia). Ciascuno ha però delle qualità diverse tanto da essere unico ed irripetibile. Queste qualità diverse interagiscono con l’ambiente e da esse dipende il risultato dello sforzo dell’uomo sul lavoro. Alcuni avranno un successo maggiore, altri ne avranno uno minore. A volte il successo dipenderà da qualità morali, come per esempio la capacità di sacrificio o la capacità di lavorare con altri creando una squadra efficiente. A volte la differenza dipenderà da qualità moralmente neutre ( il dono di una particolare brillantezza intellettuale). A volte si tratterà anche dell’imponderabile e della fortuna ( essere il primo ad avere un’idea economicamente produttiva) . Nella maggior parte dei casi si tratterà di una mescolanza di tutte queste cose. Mentre l’invidia sociale e la concezione di eguaglianza che ad essa si apparenta vede con straordinario sospetto queste differenze per una visione realista della persona umana esse sono l’occasione perché si manifesti la solidarietà fra le persone. Proprio perché alcuni hanno più successo di altri noi siamo continuamente rimandati a costruire una rete di solidarietà in cui chi è più forte aiuta chi è più debole. Senza dimenticare che anche in questo vige un certo principio di reciprocità. Chi oggi è più forte potrebbe domani avere lui bisogno di aiuto e chi oggi è più debole potrebbe essere domani quello che gode del maggior successo. La solidarietà presuppone la differenza del merito e del successo e carica i più forti di maggiore responsabilità sociale. Si può naturalmente anche indagare i motivi del maggior successo di alcuni rispetto ad altri. Abbiamo già accennato al fatto che questi motivi non sempre dipendono dal merito. Molto è importante la famiglia. Dalla famiglia ereditiamo dei beni materiali, un patrimonio genetico ed una educazione. Sul patrimonio genetico il legislatore non può intervenire. Sui beni materiali interviene con le tasse di successione (tenendo conto tuttavia del fatto che il desiderio di lasciare qualcosa ai propri figli è una delle molle più potenti che inducono a lavorare, darsi da fare e quindi creare occupazione e sviluppo). L’intervento più importante possibile è quello sull’educazione. Anche esso naturalmente è solo parziale. Il primo soggetto della educazione è la famiglia ed è nella famiglia che si apprendono le virtù e le attitudini fondamentali. E’ vero però che qui la scuola ha un ruolo sussidiario ma fondamentale. Permettere che i giovani che vengono da famiglie modeste possano sviluppare a pieno le loro capacità intellettuali ed entrare sul mercato del lavoro con la massima dotazione possibile di capitale intellettuale è la cosa più importante che si possa fare per realizzare l’obiettivo della eguaglianza delle condizioni di partenza fra i cittadini. Potremmo sintetizzare le cose dette fino ad ora nella affermazione che, in materia di politica economica, la differenza principale fra noi e la sinistra riguarda il mercato. Il mercato produce ricchezza ma al tempo stesso produce disuguaglianza. Per la sinistra il mercato è in linea di principio sospetto. Davanti al fallimento delle economie di comando (comuniste) la sinistra si è adattata ad accettare in qualche modo il mercato ma resta in fondo convinta che esso sia un male da controllare nel modo più stretto possibile. Noi pensiamo invece che il mercato sia in linea di principio positivo, anche se sappiamo che esso può generare ingiustizie ( non tutte le disuguaglianza però sono ingiustizie) e pensiamo che la politica abbia il dovere di orientare ed organizzare la solidarietà per porre rimedio ai fallimenti del mercato, per evitare che la persona umana concreta possa essere travolta e schiacciata dai meccanismi di mercato. Come interverrà la politica per orientare il mercato? Il fallimento più grande del mercato è la disoccupazione di massa. E’ veramente terribile lo spettacolo di uomini che non hanno il necessario per vivere e non possono procurarselo con il loro lavoro. E’ proprio l’analisi di questo scandalo ciò che ha dato la massima forza di convincimento alla critica marxista del capitalismo. Nella economia capitalista – dice Marx- l’uomo non è un fine ma un mezzo. Il fine è l’accumulazione del capitale. Gli uomini troveranno lavoro solo se e finchè il loro lavoro sarà utile a generare plusvalore, un valore aggiunto di cui si appropriano i detentori dei mezzi di produzione. La economia di mercato, d’altro canto, è più efficiente di ogni altro tipo di economia proprio perché continuamente lo sviluppo della tecnica e l’affinamento della organizzazione del lavoro sono mirate a rendere3 possibile a un numero minore di persone di produrre ciò che prima veniva prodotto da un numero più grande. Quando in una impresa diventa possibile ottenere con il lavoro di dieci persone quello che prima si otteneva con il lavoro di dodici è intuitivo che dieci diventeranno più ricchi e due diventeranno disoccupati. Prima o poi anche i due disoccupati troveranno un nuovo lavoro, risponderanno ai nuovi bisogni che i dieci che sono diventati più ricchi sono adesso in grado di soddisfare e tutta la società vivrà meglio. Fra il prima ed il poi c’è però uno spettro che si chiama disoccupazione. Il disoccupato scopre di non avere nessun valore per il mercato e se il mercato è tutta la società questo vuol dire che non ha nessun valore per la società. Il lavoro è una merce che si vende e si compra liberamente ed in questa situazione è insito il rischio che anche la persona venga ridotta al rango di merce. Una merce che nessuno vuole è una merce senza valore ed un lavoratore che nessuno vuole, un disoccupato, è un uomo senza valore. Un poeta angloamericano , T.S. Eliot ha espresso in modo amarissimo la condizione del disoccupato: “Nessun uomo ci ha impiegati. Con le mani in tasca Ed il capo chino Ce ne andiamo in giro senza meta O rabbrividiamo in stanze senza luce. Solo il vento si muove Sui campi vuoti, non coltivati Dove l’aratro è fermo, di traverso Al solco. In questa terra ci sarà Una sigaretta per due uomini Per due donne soltanto una mezza pinta Di birra amara …. Il Times non da’ notizia della nostra nascita E nemmeno della nostra morte.”
Marx pensava che per rimediare a questo stato di fatto fosse necessario abolire il mercato e sostituirlo con il controllo pubblico di tutti i mezzi di produzione. Il risultato è stato fallimentare: senza mercato non cresce la produttività e la società diventa più povera. Il comunismo non realizza nemmeno l’eguaglianza: i beni prodotti vengono distribuiti secondo il merito politico e l’èlite politica si appropria la parte migliore.
Giorgio La Pira, un grande cristiano ed un grande democristiano, si pose lo stesso problema subito dopo la seconda guerra mondiale in Italia. Davanti al problema drammatico della disoccupazione di massa egli individuò nella economia keynesiana lo strumento per realizzare la piena occupazione. La Pira pensava che lo stato dovesse intervenire per creare il lavoro che il mercato non riusciva a creare. Lo stato interviene realizzando grandi opere pubbliche o anche dando risposta a bisogni sociali insoddisfatti (per esempio migliorando il sistema sanitario o il sistema pensionistico). Le opere pubbliche migliorano l’efficienza della economia e la spesa sociali mette più denari nelle mani della gente che li spende comprando le merci di cui ha bisogno e quindi stimolando le imprese che le producono a svilupparsi e ad assumere nuovi lavoratori. Lo stato diventa il datore di lavoro in ultima istanza, quello che attraverso le proprie decisioni di spesa (la legge finanziaria) determina la domanda di lavoro complessiva. E’ così semplice che sembra l’uovo di Colombo. C’è però un problema: chi paga per le opere pubbliche e per la spesa sociale? In altre parole: dove prende lo stato i soldi necessari per realizzare i posti di lavoro aggiuntivi necessari per raggiungere la piena occupazione? Se li preleva attraverso le tasse riduce la capacità di consumo e di investimento dei contribuenti e quindi la loro capacità di produrre ricchezza e posti di lavoro. E’ necessario che la spesa venga finanziata in deficit. Lo stato prende a prestito i denari o anche,semplicemente, stampa carta moneta. Se gli investimenti pubblici sono fatti in modo oculato è ragionevole immaginare che nel tempo essi si paghino da soli, cioè che essi generino un aumento di produttività che permetterà al paese di crescere ed in un paese più ricco crescerà anche il gettito fiscale e lo stato sarà in grado di pagare il suo debito. Questa politica economica è stata fatta propria dai democratici cristiani e per un lungo periodo ha anche ben funzionato. Poi è entrata in crisi. Un primo motivo di crisi è che si presta a molti abusi. Finchè si finanziano posti di lavoro produttivi è ragionevole pensare che essi nel tempo si ripaghino attraverso una crescita accelerata. E’ accaduto però che molte volte si siano finanziati posti di lavoro improduttivi e clientelari oppure che si siano sostenute in modo artificiale industrie ormai superate e non più competitive. Il risultato è stato un aumento insostenibile dell’inflazione e la esplosione del debito pubblico. Il paese si è diviso in una area che stava sul mercato esposta ai rischi della competizione internazionale ed un’area di lavoro protetto o anche di lavoro finto. Alla fine abbiamo avuto tassi elevati di inflazione e tassi elevati di disoccupazione contemporaneamente. Il problema più grave però è stato un altro. Il modello keynesiano suppone un livello elevato di sovranità dello stato sull’economia. Con la globalizzazione proprio questo elemento è venuto meno. Gli accordi GATT ( General Agreement on Tariffa and Trade, Accordi Generali sulle Tariffe doganali E sul Commercio) hanno ridotto drammaticamente le tariffe doganali e gli ostacoli al commercio internazionale. Per molto tempo noi abbiamo compianto i paesi poveri ed abbiamo anche mandato loro ingenti aiuti internazionali. Contemporaneamente li abbiamo tenuti fuori del commercio internazionale. Molti economisti davano la colpa del sottosviluppo al mercato, ma in realtà i paesi poveri dal mercato erano esclusi, Con gli accordi di Punta del Este, invece, i paesi poveri sono entrati nel mercato mondiale ed hanno cominciato a migliorare le loro condizioni di vita. Oggi essi vendono da noi i loro prodotti e ci fanno concorrenza soprattutto a causa del costo del lavoro che è molto più basso del nostro. Al centro del modello economico keynesiano c’era l’idea di “moltiplicatore”. Immaginiamo che lo stato assuma mille lavoratori. Non creerà in questo modo solo mille posti di lavoro. I mille lavoratori spenderanno il loro salario acquistando beni di consumo che dovranno essere prodotti da altri lavoratori e, per lavorare, avranno bisogno di materie prime e strumenti di lavoro che dovranno a loro volta essere prodotti da altri lavoratori. La spesa statale fa crescere la domanda aggregata ed in questo modo la spesa sostenuta dallo stato viene “moltiplicata” per un coefficiente variabile a secondo del tipo di investimento o spesa pubblica che consideriamo. E’ questo appunto il moltiplicatore. In un sistema di economia aperta è proprio il moltiplicatore a non funzionare più. Nulla infatti garantisce che i lavoratori assunti direttamente o indirettamente dallo stato spendano i loro denari per comprare merci italiane. E’ possibile, anzi probabile, che una parte più o meno grande del loro reddito vada a comprare merci straniere creando in questo modo posti di lavoro, ma all’estero e non in Italia. Più l’economia si internazionalizza e meno è possibile utilizzare la spesa pubblica per produrre gli effetti voluti di maggiore occupazione. Lo stato perde il controllo del mercato perché il mercato diventa mondiale mentre lo stato rimane nazionale. La globalizzazione agisce anche in un altro senso. Nello sforzo di evitare che il lavoratore sia ridotto al semplice ruolo di una merce fra le altre i governi democristiani avevano a suo tempo introdotto una elaborata legislazione del lavoro spostando i rapporti di forza all’interno dell’azienda a favore dei lavoratori. In particolare questo ha toccato il tema della stabilità del posto di lavoro. Se il lavoratore non è liberamente licenziabile, allora è difficile sostenere che il lavoro è semplicemente una merce o che il lavoratore diventa egli stesso una merce nella libera disponibilità del datore di lavoro. Per la verità questa legislazione del lavoro non ha funzionato molto bene. Da un lato non si è mai riusciti ad estenderla veramente a tutti i lavoratori. I lavoratori dello stato e della grande azienda hanno fruito di questi nuovi diritti, i lavoratori delle piccole aziende invece no. Dall’altro i sindacati non sono riusciti ad impedire che di esse si abusasse creando talvolta sacche di inefficienza e di improduttività che venivano alla fine pagate attraverso le tasse da tutti i contribuenti. Anche qui però, alla fine, il sistema si è rivelato incompatibile con la globalizzazione. Se questi obblighi sono imposti a tutte le aziende che competono sul mercato allora essi non generano un vantaggio competitivo particolare a favore di alcune di esse. Ma se il mercato diventa mondiale le imprese poste fuori dei confini nazionali non sono sottoposte agli obblighi sociali sanciti dalla legislazione italiana. Il divario è particolarmente forte con i paesi poveri. I salari lì sono bassi e la protezione sociale del lavoro praticamente non esiste. Non reggendo questo svantaggio competitivo le imprese italiane rischiano di uscire dal mercato o di chiudere. Molte, per evitare questo destino o comunque per sfruttare le occasioni offerte dalla nuova situazione, “delocalizzano”, cioè vanno a produrre in altri paesi e quindi cancellano posti di lavoro in Italia per crearne all’estero. Per tutti queste ragioni la economia keynesiana viene progressivamente abbandonata a partire dalla fine degli anni ’70. Passa, fra gli economisti e gli studiosi di politica economica, un nuovo indirizzo teorico, legato alla cosiddetta scuola di Chicago di Milton Friedman o anche alla elaborazione della scuola austriaca di F.von Hayek. Si tratta di indirizzi accentuatamente liberisti che chiedono che vengano liberate le energie del mercato e della libera iniziativa riducendo il sistema di vincoli e di “lacci e laccioli” che imprigionano gli “spiriti animali” del mercato. In effetti i paesi che hanno adottato coerentemente politiche liberiste di deregolamentazione dei mercati hanno avuto regolarmente tassi di crescita più elevati ( molto più elevati) di quelli che sono rimasti legati al vecchio modello keynesiano. La rivoluzione è stata iniziata da Ronald Reagan negli Stati Uniti e da Margaret Thatcher in Gran Bretagna. Successivamente queste politiche sono state adottate in molti paesi per lo più con effetti positivi. Abbiamo assistito, in un certo senso, ad una grande rivincita della destra liberale. E’ una vittoria contro la sinistra, simbolizzata dalla caduta del muro di Berlino. Ma è anche una vittoria contro il centro. La Pira, infatti, e anche J.M. Keynes non erano uomini di sinistra ma di centro. Non erano contro il mercato e non erano a favore di una eguaglianza astratta. Si domandavano invece in che modo sia possibile fare in modo che il mercato sia al servizio della persona umana, in che modo si possa rimediare ai fallimenti del mercato. Cosa diremmo noi a La Pira se fosse vivo e se potessimo parlare con lui? Gli diremmo che ha sbagliato tutto o che i democristiani di oggi hanno cambiato di atteggiamento umano fondamentale e sono diventati indifferenti alle “attese della povera gente”? No, gli diremmo semplicemente che condividiamo la sua preoccupazione per i poveri e per gli ultimi, la sua passione bruciante per ogni singola persona umana e per la sua dignità. Semplicemente per realizzare la medesima intenzioni oggi dobbiamo inventarci strumenti diversi, all’altezza della epoca storica nella quale viviamo. Eguale è l’intenzione di evitare che il lavoratore venga degradato al rango di merce, diversi sono i mezzi con cui quel fine può essere perseguito nel nostro tempo. Succede in politica economica la stessa cosa che succede in medicina. Con il tempo sono cresciuti nuovi batteri resistenti agli antibiotici (penicillina, streptomicina) che usavamo per curare le malattie ancora fino a non molti anni fa’. La scienza medica, naturalmente non si è arresa ma si è messa alla ricerca di altri mezzi di cura. La stessa cosa fa’ oggi la politica di centro. In un contesto cambiato cerca nuovi strumenti per affermare il primato del valore della persona sui valori del mercato. Intorno a noi vediamo da un lato un liberismo ed un liberalismo dottrinari. E’ quella destra che vive oggi una grande rivincita contro le politiche keynesiane e che vorrebbe un mondo in cui il ruolo dello stato fosse ridotto al minimo assolutamente indispensabile: la difesa esterna ed interna, la giustiziagli affari esteri ed il bilancio. Qualcuno si è sforzato di immaginare persino in che modo sarebbe possibile privatizzare anche la giustizia o la difesa esterna e interna sostituendole con meccanismi di mercato (es. Marray Rothbard). Noi non siamo liberali dottrinari. Sa mai siamo liberali pragmatici: sappiamo che le politiche keynesiane nel mondo di oggi non funzionano e devono quindi essere abbandonate, non riteniamo però che fosse sbagliata la preoccupazione etica che portò i democristiani ad adottare quelle politiche e intendiamo farla valere con mezzi diversi in un mondo che è cambiato. A sinistra invece c’è spesso una difesa disperata del passato. I risultati dell’epoca democristiana furono, al tempo della loro introduzione, aspramente contrastati dalla sinistra che allora voleva la collettivizzazione. Adesso vengono difesi come se realizzassero il paradiso perduto dei lavoratori. Questo atteggiamento è assai insidioso, perché fra la gente c’è in verità molta nostalgia di un mondo del lavoro più regolato e meno rischioso. Fra i lavoratori c’è ansia e c’è preoccupazione e la reazione immediata è quella di difendere il sistema che ha funzionato in passato cercando in tutti i modi di reprimere la coscienza del fatto che esso ormai da tempo ha cessato di funzionare. Fra il liberismo dottrinario ed il feticismo del passato bisogna aprire di nuovo il cammino del realismo, della difesa concreta dei diritti dell’uomo e dei diritti del lavoro nella società che cambia. E’ questo il compito del centro. Che fare? Abbiamo già sottolineato che il problema ha una dimensione globale. La politica non governa più l’economia perché l’economia è globale e la politica è soltanto nazionale. E’ necessario che la politica recuperi almeno in parte la sua sovranità. E’ necessario iniziare un percorso per arrivare ad un General Agreement on Wages and Labour ( un accordo generale sui salari e le condizioni di lavoro) che complementi ed integri gli accordi GATT ( General Agreement on Tariffa and Trade). Occorre cioè globalizzare la protezione dei diritti del lavoro. Gli effetti negativi della situazione attuale cominciano del resto a vedersi. In alcuni paesi i lavoratori non godono di nessuna protezione e sono esposti ad uno sfruttamento vergognoso che è particolarmente intollerabile quando colpisce le donne ed i bambini. Si tratta spesso di paesi sottoposti a dittature comuniste che non danno garanzie sui diritti umani, reprimono la libertà di parola e di religione e non consentono libertà di organizzazione sindacale e di lotta per la difesa dei diritti del lavoro. Certo, bisogna essere realisti. Nonostante tutto questi paesi, da quando sono entrati nel mercato globale, hanno realizzato straordinari miglioramenti. In molti casi la condizione precedente lasciava moltissimi lavoratori esposti al rischio realissimo della morte per fame. Di più: per poter vivere questi paesi avranno bisogno per un periodo ancora relativamente lungo di poter avere un costo del lavoro più basso del nostro e di una legislazione di tutela del lavoro meno stringente. E tuttavia è tempo di iniziare un percorso che porti verso una globalizzazione graduale dei diritti del lavoro. In quegli stessi paesi i lavoratori cominciano a reclamare un miglioramento della loro condizione. Modi di produzione che non proteggono la salute dei lavoratori hanno effetti nocivi anche sulle merci che vengono messe sul mercato. Noi abbiamo, per esempio, in Europa regolamenti stringenti sull’uso delle sostanze chimiche nei processi di produzione, a tutela della salute dei lavoratori e di quella dei consumatori. Nei paesi emergenti spesso non vi è in questo ambito nessuna regola e è capitato spesso che prodotti di quei paesi dovessero essere ritirati dal mercato perché pericolosi. Quanti dei prodotti che noi importiamo resisterebbero ad un esame rigoroso che dimostri che essi sono stati fatti obbedendo alle stesse regole che noi ci siamo dati a tutela dell’ambiente e dei consumatori? E possiamo totalmente disinteressarci della salute dei lavoratori che hanno prodotto quelle merci, nel caso che i danni si estendano solo ai lavoratori ed anche ai consumatori? E saremo del tutto indifferenti al fatto che le merci che importiamo e consumiamo siano state prodotte, per esempio, con il lavoro schiavo dei bambini? Sia chiaro: noi non proponiamo un atteggiamento neoprotezionista. Dire ai paesi emergenti che non possono esportare sui nostri mercati significherebbe cercare di ricacciarli nella situazione di disperazione di qualche decennio fa’. Sarebbe come dire che l’unico modo di migliorare la loro condizione è fare la guerra a noi perché l’ordine internazionale che noi difendiamo li condanna alla fame ed alle malattie. Possiamo però vincolare l’accesso ai mercati ricchi dell’Europa e del Nordamerica ad un livello minimale e crescente dei diritti umano in generale e dei diritti del lavoro in particolare. Questo farebbe bene ai lavoratori di quei paesi ma farebbe bene anche ai lavoratori dei nostri paesi, specialmente quelli che hanno qualifiche più basse e lavorano in settori esposti alla concorrenza del lavoro a basso costo dei paesi emergenti. La competizione avverrebbe più sulla innovazione e sulla qualità del prodotto e meno sulla compressione dei salari e delle garanzie per i lavoratori. Per arrivare agli accordi GATT è stato necessario un processo negoziale lunghissimo , difficile e complicato. E’ ovvio che arrivare ad accordi internazionali per la difesa dei diritti del lavoro significa affrontare difficoltà probabilmente ancora più grandi. Occorre grande pazienza e grande determinazione. Il passo più difficile di un lungo percorso è però il primo e questo primo passo oggi è necessario fare. Si potrebbe partire forse dagli stessi accordi GATT che contengono alcune clausole che possono essere applicate alla difesa del lavoro e procedere poi verso un trattato complessivo con norme più precise e stringenti. L’Italia non può procedere da sola su questo percorso. E’ necessario costruire un ampio sistema di alleanze internazionali, a partire dalla Unione Europea. Fino ad oggi l’Unione Europea non è riuscita ad unirsi su di un progetto di difesa dei diritti del lavoro all’interno dei propri confini. Questo è in parte dovuto al fatto che i paesi excomunisti avevano bisogno in una prima fase, per poter vivere e svilupparsi, di sfruttare al massimo la loro risorsa principale: il lavoro a basso costo. Esistono anche resistenze di altri tipo, più ideologiche, provenienti da quel liberismo dogmatico a cui già abbiamo accennato e che è forte soprattutto nei paesi anglosassoni. Esse vanno comunque superate perché è difficile proporre con autorevolezza una accordo mondiale sulla difesa dei diritti del lavoro se non esiste almeno un abbozzo di politica sociale comune europea. Su di una cosa dobbiamo essere chiari: anche dopo un auspicabile recupero di sovranità della politica sulla economia, un ritorno alle politiche assistenziali tipiche degli anni della decadenza del keynesismo non è possibile e nemmeno desiderabile. Una cosa è finanziare il deficit grandi lavori pubblici, dove si può ragionevolmente sperare che con il tempo i vantaggi dell’opera facciano corrispondentemente aumentare il prodotto complessivo, un’altra cosa è semplicemente aumentare la spesa pubblica pagando chi fa’ finta solo di lavorare o finanziando imprese sistematicamente in perdita che consumano più di quanto producano. Questo non solo è impossibile ma è anche immorale. Il compito sociale dell’impresa è produrre ricchezza per far fronte ai bisogni sociali. Una impresa che sistematicamente consuma ricchezza invece di produrla è una truffa a danno dei contribuenti che devono sussidiare un lavoro socialmente inutile. In ogni caso prima che la politica possa recuperare sovranità sulla economia dovrà passare del tempo ( almeno alcuni decenni). Come si governa la economia italiana in questo lasso di tempo? Che politiche econo0miche possono essere efficaci in una fase storica in cui l’economia è più forte della politica? Le politiche tradizionali miravano a difendere il posto di lavoro. La non licenziabilità del lavoratore lo difendeva dalla disoccupazione, lo tutelava dalle possibili angherie del datore di lavoro, ne garantiva la dignità umana e faceva in modo che non fosse ridotto al rango di un qualsiasi fattore produttivo il cui uso dipende esclusivamente dalla sua capacità di produrre un utile per l’impresa. La tutela del posto di lavoro fisso supponeva una serie di condizioni che sono rapidamente venute meno. Essa era plausibile in una epoca storica in cui la innovazione tecnologica era relativamente lenta. Oggi il progresso tecnico/scientifico ed organizzativo rende necessaria una grande ristrutturazione in media ogni cinque o sei anni. In queste ristrutturazioni posti di lavoro vengono cancellati e molti mestieri spariscono. Quando nella costruzione delle automobili l’acciaio per molti usi è stato sostituito dalle materie plastiche o da leghe di tipo diverso per molti posti di lavoro non c’è stata salvezza. Non fare la ristrutturazione significa uscire dal mercato e dovere chiudere. Farla significa che molti lavoratori devono essere licenziati. Davanti al rischio di disoccupazione in una grande azienda sembra ragionevole mobilitarsi, chiedere che i licenziamenti vengano revocati e magari alla fine chiedere che lo stato rilevi lui l’azienda e la faccia andare avanti anche se essa è diventata antieconomica. In realtà oggi questo è impossibile. Per un verso questo significa consumare risorse invece di produrne aggravando le condizioni di lavoro e di vita degli altri lavoratori. Per un altro aspetto all’interno del mercato comune europeo un simile comportamento è vietato. Si chiama “aiuto di stato” e non è consentito perché distorce la concorrenza. Infine se si impone ad una impresa di rinunciare a decisioni che sono diventate improrogabili per la sua vita ed il suo sviluppo è sempre possibile che l’azienda abbandoni il territorio nazionale e si “delocalizzi” vada cioè a produrre in un altro posto. Alla fine per impedire alcuni licenziamenti in una azienda che avrebbe potuto essere salvata si finisce con il fare perdere il posto di lavoro a tutti i lavoratori di quella azienda. La necessità del cambiamento e della riduzione dei posti di lavoro può essere il risultato di cambiamenti tecnologici, ma può anche essere il risultato del fatto che entrano sul mercato del lavoro paesi nuovi con un costo del lavoro di molti più basso. Anche in questo caso una azienda italiana può essere costre3tta a cambiamenti drastici, che implicano la perdita di molti posti di lavoro. Che fare? Bisogna distinguere a questo proposito fra strategie di lungo periodo e strategie di breve periodo. Nel lungo periodo la politica può intervenire rendendo conveniente per le imprese il restare o il venire in Italia. Bisogna porsi la domanda: perché le imprese dovrebbero venire a produrre in Italia? L’Italia è un luogo buono per lavorare prima di tutto a causa della qualità dei suoi lavoratori. Allora bisogna migliorare la qualità dei lavoratori italiani. I paesi emergenti ci fanno concorrenza su produzioni a basso costo del lavoro ed a basso contenuto informativo ( in cui è investita poca tecnologia e poca cultura). Se vogliamo sfuggire ad una concorrenza fondata sull’abbassamento del costo del lavoro dobbiamo imparare a fare cose che i paesi emergenti non sanno fare. Mille analfabeti non sanno fare il lavoro di un solo ingegnere. Dobbiamo aumentare il livello della nostra scuola e della nostra università. Dobbiamo spiegare agli studenti che a scuola si va per imparare, che la scuola può essere dura ma non sarà mai dura come la vita e che quindi a scuola bisogna dare il meglio di se. Parole come impegno, disciplina, sforzo, merito devono tornare ad avere un senso per i nostri studenti. Dobbiamo produrre un maggior numero di brevetti ed avere un maggior numero di prodotti basati sulla nostra ricerca scientifica. Prodotti così sono difficilmente imitabili e la concorrenza, in questo campo, non si fa’ sul basso costo del lavoro ma sulla qualità della ricerca che sta dietro il prodotto. Dobbiamo investire sulla scuola, sull’università e sulla ricerca scientifica. Dobbiamo ridurre la spesa corrente per accrescere l’investimento in educazione. Per fare questo abbiamo però bisogno di una scuola e di una università che funzionino davvero, in cui gli insegnanti bravi vengano premiati e quelli cattivi svantaggiati o licenziati e corrispondentemente venga premiato il merito degli studenti. Egualmente importante è il problema della formazione professionale. Noi italiani non siamo molto forti nella tecnologia pesante e solo una parte limitata delle nostre esportazioni è protetta da brevetto. Siamo invece dei campioni nella innovazione in ambiti a tecnologia leggera nei quali la qualità del disegno o della fattura artigianale ci permettono di ottenere risultati di assoluta eccellenza. Spesso però questi saperi artigianali non sono sufficientemente curati. La trasmissione di questi saperi attraverso un sistema di formazione professionale di qualità è parte anch’esso di una strategia per la valorizzazione del lavoro italiano. L’Italia attira insediamenti produttivi anche per la sua collocazione geografica e per il sistema infrastrutturale di cui è dotata. Se si produce nei paesi emergenti occorre poi affrontare spesso costi molto elevati per raggiungere i mercati di sbocco che sono collocati nei paesi più ricchi. Il processo produttivo tende a concentrarsi in quelle aree dalle quali è oiù facile l’accesso ai mercati. Il rafforzamento del sistema infrastrutturale è un altro elemento che attira investimenti produttivi. Inevitabilmente l’Italia dovrà perdere molte produzioni ma potrà acquistarne altre. Anche i processi di delocalizzazione possono essere orientati in modo tale da ridurre gli svantaggi ed accrescere i vantaggi ad essi legati. Spesso si possono spostare in altri paesi le lavorazioni che richiedono più lavoro poco qualificato e mantenere in Italia quelle a maggior valore aggiunto. Per articolare così su ampi spazi i processi produttivi è però necessario disporre di sistemi logistici di alta qualità e di assoluta affidabilità. La logistica diventa il perno strategico dello sviluppo. Tutte le politiche che abbiamo sommariamente elencato richiedono tempi lunghi per andare a regime. Se si risana la università oggi e si inizia una linea produttiva di ricerca scientifica i risultati non arriveranno prima di alcuni anni. Egualmente se impostiamo oggi un grande programma di rafforzamento del sistema logistico italiano passerà qualche decennio prima che le opere siano completate e si vedano i risultati. Nel frattempo che fare? Dobbiamo rendere più flessibili i nostri sistemi di lavoro e non possiamo costringere le aziende a ritardare i processi di ristrutturazione per difendere posti di lavoro che non hanno più alcun senso economico. Invece di ostinarci nella difesa impossibile di posti di lavoro ormai inevitabilmente obsoleti dobbiamo concentrarci sulla difesa del lavoratore che ha perso il posto di lavoro. In altre parole: non possiamo mettere la solidarietà a favore del lavoratore che perde il posto di lavoro interamente a carico dell’impresa che ha bisogno di ristrutturare. E’ allora necessario garantire al lavoratore un reddito adeguato nel periodo di disoccupazione, legato alla frequenza di corsi di formazione orientati che gli permettano di riqualificarsi recuperando per quanto possibile la sua professionalità precedente ed orientandosi verso i nuovi mestieri e le nuove opportunità offerte dal mercato. Come abbiamo già detto il sistema di libero mercato cambia continuamente la divisione del lavoro umano cancellando posti di lavoro ma anche creando nuove opportunità. Ecco il perché è così importante quella flessibilità che oggi viene invocata ad ogni piè sospinto come la chiave della competitività del nostro sistema. Non si può difendere chi sta fermo. Bisogna imparare a muoversi in un mondo che cambia ed aiutare il lavoratore a valorizzare al meglio le proprie potenzialità in un ambiente che si trasforma. Naturalmente nessuno può vivere in una situazione di instabilità permanente. L’uomo desidera naturalmente sfruttare le opportunità che gli si offrono, ma l’uomo ha anche un originario bisogno di sicurezza. Essere membro di una comunità, avere degli amici, appartenere ad un sindacato domani sarà più importante di quanto non lo sia oggi. Le reti di sicurezza di domani non potranno essere tutte concentrate nelle mani dello stato. Esse saranno tanto più efficaci quanto più saranno decentrate e rese vicine all’utente. Per questo sarà fondamentale la dimensione comunitaria secondo il principio di sussidiarietà. Sarà importante sia la sussidiarietà verticale (il trasferimento di funzioni dallo stato alle regioni ed ai comuni) sia quella orizzontale ( il trasferimento di funzioni dallo stato alle famiglie, alle associazioni ed alle comunità volontarie). La solidarietà della fase nuova che stiamo vivendo deve essere una solidarietà mobile, non statica. E deve essere una solidarietà che lavora insieme al mercato e non contro di esso. Questo punto è particolarmente importante: nella sinistra italiana vi è un atteggiamento fortemente radicato di ostilità contro il mercato. La solidarietà viene opposta al mercato come fra solidarietà e mercato esistesse una contraddizione di principio come se per fare solidarietà fosse necessario sempre e comunque distorcere i meccanismi di mercato. Il nostro approccio è diverso. Non crediamo in una armonia prestabilita fra mercato e solidarietà ma non crediamo nemmeno in una opposizione di principio. Pensiamo anzi che quando si riesce a fare lavorare insieme in sinergia mercato e solidarietà i risultati sono migliori. In generale questo avviene quando la solidarietà non è centralizzata a livello statale ma decentrata sul territorio e valorizza anche le associazioni volontarie e soprattutto le famiglie. La chiave per coniugare in modo creativo mercato e solidarietà è il principio di sussidiarietà. Torniamo adesso alle condizioni che attraggono investimenti, capitale e lavoro sul territorio di uno stato. La nostra analisi non sarebbe completa se non nominassimo, accanto alla qualità della forza lavoro ed al livello delle infrastrutture, anche il livello della imposizione fiscale. Abbiamo accennato al fatto che le produzioni si globalizzano. Sempre più spesso le diverse componenti di un diverso prodotto si producono in paesi diversi e sono poi combinati fra loro e montati ancora in altri paesi. Il risultato è che rapporti internazionali si intrecciano all’interno della medesima azienda ed è sempre più facile scegliere in modo perfettamente legittimo il domicilio fiscale della propria azienda, cioè il luogo in cui pagare le tasse. La competizione fra i diversi paesi per attrarre investimenti e posti di lavoro sul proprio territorio diventa quindi inevitabilmente competizione fiscale. Un paese che abbia livelli di imposizione più alti di quelli dei suoi competitori rischia di perdere contribuenti ed entrate fiscali ma anche investimenti e posti di lavoro. E’ necessario quindi arrivare ad un chiarimento in linea di principio in materie di politiche fiscali: scopo della tassazione è ridistribuire il reddito secondo modelli egualitaristici o favorire una abbondanza di posti di lavoro e dei occasioni di guadagno per i lavoratori? Se il nostro obiettivo è una società egualitaria avremo tasse elevate e meno posti di lavoro, se privilegeremo il secondo avremo una società prospera e solidale. Tutte queste questioni vanno inquadrate, come noi peraltro abbiamo cercato di fare, nell’ottica della globalizzazione. Gli ottimisti dicono che alla fine la globalizzazione porterà più benessere e prosperità per tutti. I pessimisti pensano invece che essa sia un mostro destinato a travolgere la nostra società e la nostra cultura generando sofferenze e lutti. Noi tendiamo ad essere piuttosto ottimisti ma non ci nascondiamo il fatto che nel medio periodo la globalizzazione porta con se anche enormi problemi. La globalizzazione è positiva perché i paesi poveri del mondo hanno finalmente una vera occasione per crescere. La globalizzazione crea però tre tipi di problemi. Esistono paesi poveri che non sono riusciti ad agganciare la globalizzazione. Sono soprattutto i paesi dell’Africa e (in parte) dell’America Latina. Questi paesi rischiano di perdere una occasione storica e di precipitare in un abisso ancora molto peggiore di quello nel quale si trovano. Esistono problemi per i poveri dei paesi ricchi. Le produzioni a contenuto tecnologico più povero ed a minore valore aggiunto si spostano dai paesi ricchi ai paesi poveri. I lavoratori meno qualificati dei paesi ricchi perdono il posto di lavoro. Bisogna governare il processo creando milioni di posti di lavoro nuovi in settori non esposti alla concorrenza dei paesi emergenti, posti di lavoro ad alto contenuto tecnologico o posti di lavoro nei servizi o nel turismo. Nel lungo periodo, naturalmente, ci si avvierà ad una certa parificazione dei salari nei paesi ricchi e nei paesi poveri, ma per una intera generazione noi dobbiamo mantenere una certa superiorità tecnologica se vogliamo pagare ai nostri giovani salari che consentano loro di mantenere un tenore di vita che noi consideriamo accettabile. Dalla globalizzazione usciranno profondamente cambiati i rapporti fra le nazioni. Alcuni grandi paesi usciranno dal sottosviluppo e dalla povertà (p.es. Cina ed India). Altri perderanno relativamente di peso. Qualche paese ricco che non riesca ad adeguarsi al cambiamento potrebbe scivolare nella povertà. L’Italia ha qualche motivo di preoccupazione: sono diversi anni che il paese non cresce o comunque cresce meno dei paesi che sono suo punto di riferimento. E’ evidente che l’Italia tarda a comprendere il nuovo sistema delle relazioni economiche internazionali e ad inserirsi in esso. Se volgiamo lo sguardo al dibattito politico in corso in Italia su questi temi vediamo che esso si concentra sulla cosiddetta legge Biagi , di cui la sinistra chiede di fatto l’abolizione. Il sistema italiano di protezione del lavoro si è incardinato a lungo sulla difesa del posto fisso. Con il tempo è però diventato sempre più evidente che la difesa del posto di lavoro fisso si paga con la riduzione dei posti di lavoro disponibili. Se non esiste la possibilità di licenziare in caso di necessità le aziende preferiscono non assumere e rinunciano anche a possibilità di ingrandirsi e crescere. Piuttosto che assumere per far fronte a nuove commesse la cui durata è però incerta nel tempo si preferisce non rischiare chiudendosi nella propria nicchia di mercato. In realtà poi la garanzia del posto di lavoro non si estende in modo eguale a tutti i lavoratori. Ne sono esclusi i lavoratori delle piccole imprese, quelle con meno di quindici addetti. Di nuovo: le imprese spesso preferiscono non crescere per non doversi assoggettare a vincoli eccessivi. Spesso nascono intricate piccole holding che hanno solo la funzione di d spezzettare un processo produttivo di per sé unitario per non superare in nessuna delle aziende coinvolte il limite fatidico dei quindici occupati. Ancora più grave è il fatto che molte unità produttive lavorano in tutto o in parte in nero. Moltissimi lavoratori lavorano senza nessuna garanzia e fuori della legalità. I lavoratori dell’Italia emersa godono di garanzie probabilmente superiori a quelle di qualunque altro paese europeo. Quelli dell’Italia sommersa lavorano senza nessuna garanzia. Da questa situazione si comincia ad uscire con il cosiddetto pacchetto legislativo Treu e poi con la legge Biagi. Benché siano stati approvati l’uno da un governo di centrosinistra e l’altro da ung governo di centrodestra l’ispirazione dei due provvedimenti è sostanzialmente la stessa, tanto che possono essere considerati come due tappe di un unico processo riformatore. Si tratta fondamentalmente di legalizzare il lavoro a termine. Allo spirare del tempo del contratto l’impresa ha la scelta di rinnovarlo oppure no. A questo si aggiungono forme di collaborazione che in teoria sarebbero prestazioni di servizio all’azienda da parte di lavoratori indipendenti ma in realtà sono spesso mascheramenti più o meno ben riusciti di forme di lavoro dipendente. Queste riforme hanno realizzato un vero e proprio miracolo: l’occupazione è cresciuta e la disoccupazione è corrispondentemente diminuita da poco meno del 12% della forza lavoro a poco più del 7%. Per molti giovani lavoratori il contratto a termine si è poi consolidato in contratto di lavoro a tempo indeterminato. Per altri invece no. Residua un’area importante di lavoro precario. Si diffonde così la parola d’ordine della lotta al precariato. Che fare? Da un lato dobbiamo tutti renderci conto del fatto che in un mondo mobile la probabilità di dovere cambiare lavoro almeno una volta nella vita è elevata. Per questo è necessario per tutti non adagiarsi mai, tenere gli occhi aperti, migliorare la propria qualificazione professionale e le proprie capacità di ricollocarsi sul mercato del lavoro. Dall’altro è pur vero che per formulare un progetto di futuro, sposarsi, comprare una casa etc… un certo grado di stabilità è pure necessario. La stabilità è pure necessaria per sentire di appartenere ad una impresa intesa anche come comunità di persone. Senza il sentimento di appartenenza non cresce la partecipazione ai fini dell’impresa e non cresce quindi neppure la capacità di dare ad essa un contributo creativo. Il problema di camminare verso la stabilità e di superare la precarizzazione dei rapporti di lavoro dunque esiste. Che fare? E’ necessaria una proposta coraggiosa per andare oltre la legge Biagi. Rispetto ad essa non si può tornare indietro, se non si vuole trasformare tanti precari in disoccupati. E’ però possibile uscire dal precariato in avanti. E’ necessario istituire un contratto a tempo indeterminato che non contenga però la clausola di inamovibilità del lavoratore. Come abbiamo già ricordato il paese con il minimo livello di lavoro precario è la Danimarca. La Danimarca è però un paese in cui è possibile licenziare in caso di necessità pagando una giusta penale ma in cui nessun datore di lavoro è mai stato obbligato a tenersi un lavoratore per il quale non avesse una occupazione produttiva. Ovviamente questa libertà di uscire dal rapporto di lavoro va accompagnata con altri provvedimenti a cui abbiamo già accennato: il sussidio di disoccupazione, la formazione professionale e l’aiuto nella ricerca di un nuovo lavoro. L’ideale è l’accompagnamento da posto a posto di lavoro. Le riforme che siamo venuti proponendo chiedono un dialogo nuovo da condurre con il movimento sindacale. Nel sindacato italiano ha avuto a lungo la prevalenza la cultura del posto fisso e della difesa del posto fisso. Adesso è necessario cambiare. Alcuni pensano che il cambiamento possa avvenire solo attraverso un grande scontro sociale concluso con la sconfitta del sindacato. Qualcosa di analogo a ciò che accadde in Gran Bretagna quando il sindacato dei minatori guidato da Scargill dovette cedete davanti a Lady Thatcher e da lì iniziò il declino dei sindacati in Inghilterra. Noi crediamo che sia per l’Italia una grande ricchezza l’esistenza, nel movimento dei lavoratori, di forti componenti di tradizione non marxista che sanno capire le nuove esigenze del mondo del lavoro, che contrattano duramente in difesa dei lavoratori ma hanno anche una visione non ideologica simile alla nostra che le aiuta a vedere quali sono i veri interessi di lungo periodo dei lavoratori. Speriamo dunque che su questi temi sia possibile il dialogo con il sindacato e nel sindacato. Nel mondo di domani i lavoratori avranno bisogno ancora di sindacati dedicati alla difesa dei loro diritti ed alla organizzazione della solidarietà dei lavoratori. Questi sindacati dovranno inevitabilmente essere diversi da quelli a cui ci hanno abituato gli anni della guerra fredda e della lotta di classe , dovranno essere sindacati non della lotta di classe ma della solidarietà. Siamo partiti da Giorgio La Pira, dalla sua passione per i poveri e dal suo ascolto delle “Attese della Povera Gente”. Siamo partiti da La Pira che è stato il vero teorico del keynesismo per ragioni cristiane. I tempi sono cambiati ma le finalità ed i valori restano gli stessi: difendere la persona umana, impedire che essa si riduca ad essere solo un ingranaggio del mercato o, peggio, che venga dilaniata dai meccanismi di mercato. Con i tempi devono però cambiare anche gli strumenti ed i meccanismi politici attraverso i quali i valori vengono realizzati. Nell’epoca della globalizzazione la difesa dell’uomo non coincide con la difesa del posto di lavoro fisso: bisogna passare dalla tutela del posto di lavoro alla tutela del lavoratore, e questa tutela deve essere sufficientemente flessibile ed intelligente per accompagnare il lavoratore da un posto di lavoro ad un altro. E’ , questo, l’approccio di un liberalismo pragmatico e non dogmatico che non rinnega il compito dello stato nel superare i colli di bottiglia dello sviluppo ma sa riconoscere in generale il ruolo del mercato come strumento di libertà ed in particolare le condizioni particolari che il nostro tempo, il tempo della globalizzazione, impone alla nostra ricerca di una politica al servizio della persona umana. Siamo partiti da La Pira. In chiusura vogliamo ricordare fugacemente l’insegnamento di un altro grande del pensiero democratico cristiano, don Luigi Sturzo. Sturzo diffidò sempre (in certi momenti in modo perfino esagerato) dello statalismo in economia. Non che egli non vedesse i molteplici effetti positivi che possono nascere da un intervento dello stato ben orientato e consapevole dei propri limiti. Egli però temeva lo statalismo: la “concupiscentia irresistibilis”, che spinge lo stato ad accumulare poteri sempre più grandi nelle sue mani, a distorcere il mercato, a premiare i fedeli e non i meritevoli, a sostenere in caso di necessità le corporazioni più forti facendo pagare i costi dell’intervento alla generalità dei cittadini, ed in modo maggiore a quelli più bisognosi. Anche Sturzo era un liberale non dottrinario ma pragmatico, come noi vogliamo essere. Agli inizi di un secolo nuovo noi vogliamo portare in esso il bagaglio dei valori che non cambiano ma vogliamo affrontare i problemi nuovi che stanno davanti a noi con la libertà di pensiero e la curiosità intellettuale che solo possono aiutarci a scoprire le “idee ricostruttive” della politica all’altezza delle sfide del tempo nuovo.
di Rocco Buttiglione
E' diffusa fra i cattolici la convinzione che una politica cristiana debba necessariamente guardare a sinistra perché non possiamo non farci carico del problema dei poveri. La sinistra è dalla parte dei poveri e dunque i cristiani in politica devono stare a sinistra o quanto meno guardare a sinistra.
E' giusta ed accettabile questa convinzione?
Intanto è certamente giusto dire che il cristiano non può non stare dalla parte dei poveri. Il problema è piuttosto se la sinistra stia davvero dalla parte dei poveri e che cosa significa in verità stare dalla parte dei poveri. Cominciamo con questa seconda domanda: che cosa significa davvero “stare dalla parte dei poveri”. La risposta è in un certo senso intuitiva: vogliamo che ogni uomo abbia il necessario per vivere, che nessuno debba patire la fame o il freddo, che ciascuno abbia la possibilità di avere accesso alla cultura, cioè la possibilità di uno sviluppo integrale della propria personalità umana. Ci illumina a questo proposito una enciclica di Giovanni Paolo II, la Dives in Misericordia. Apparentemente non è una enciclica dedicata a dei temi sociali ma in realtà afferma un principio che tocca profondamente la nostra visione dell’ordine sociale. Potremo esprimere il suo messaggio in questo modo: c’ è qualcosa che è dovuto all’uomo per il fatto che è un uomo, a causa della sua eminente dignità. Ciò naturalmente non vuol dire che ogni uomo non debba lavorare per avere il necessario per vivere o che qualcuno abbia un diritto di vivere ozioso a spese della comunità. Nella vita vale il principio della giustizia commutativa: se vuoi qualcosa devi pagare in qualche modo ( fondamentalmente attraverso il lavoro) il suo prezzo. Ma che faremo di colui che non riesce a pagare? Come ci comporteremo con colui che ha bisogno di tutto e non ha nulla da dare in cambio del necessario per la sua vita? Possiamo limitarci a dire : “ sei un fannullone ed un fallito e ti lasciamo a morire al margine della strada?” Non possiamo a causa del valore trascendente di ogni persona umana. Dio stesso verrebbe a chiederci conto di quel suo figlio che noi abbiamo abbandonato. E cosa è dovuto a chi nel gioco del mercato e della concorrenza non ce l’ha fatta ed ha fatto fallimento? Non solo il necessario per non morire ma una seconda occasione, la possibilità di reinserirsi come membro utile ed attivo della società. In un’altra sua enciclica, la Laborem Exercens, Giovanni Paolo II parla del diritto dell’uomo al lavoro. Essere inserito nella società, avere accesso ai beni della terra, significa avere la possibilità di lavorare. L’uomo ha il dovere di lavorare (salvo solo il caso in cui le sue condizioni di salute non glielo consentano) ma l’uomo ha anche e proprio per questo il diritto di lavorare. In un’altra enciclica ancora, la Sollicitudio Rei Socialis, il Papa ci parla della proprietà dei mezzi di produzione. Dio ha creato la terra e la ha consegnata agli uomini perché attraverso il lavoro abbiano cura della sua bellezza e traggano da essa il proprio sostentamento. Dio ha dato tutta la terra a tutti gli uomini. Questo non vuol dire che la terra debba essere divisa in parti eguali fra tutti gli uomini. La ricchezza della nostra economia deriva dalla divisione del lavoro, dalle opere dell’ingegno umano assai più che dalla proprietà della terra. Sarebbe ingenuo pensare che tutta la ricchezza derivi dalla terra. Ancora più che dalla terra la ricchezza deriva dall’ingegno dell’uomo e dalle sue opere. Tuttavia rimane vero che la terra è un presupposto inevitabile di qualunque produzione. Dire che la terra è affidata a tutti gli uomini significa in realtà due cose: che nessuno può distruggere le risorse della terra ignorando i diritti delle future generazioni o anche quello dei contemporanei a vivere in un ambiente salubre e pulito e che nessuno deve essere tagliato fuori dalla grande famiglia del lavoro umano, deve rimanere privo della possibilità di guadagnarsi da vivere attraverso il lavoro. E’ facile dimostrare che questi principi della dottrina sociale cristiana sono interamente recepiti anche nella Costituzione della Repubblica Italiana. In cosa si differenziano questi principi da quelli della sinistra? Non è facile dirlo perché oggi esiste nella sinistra una grande confusione e non è facile trovare nella sinistra le posizioni più diverse, comprese quelle che abbiamo indicato come proprie della dottrina sociale cristiana. Per fare un po’ di chiarezza partiamo da Norberto Bobbio che ha indicato nella eguaglianza il punto di orientamento fondamentale della sinistra. Eguaglianza può significare la stessa cosa della solidarietà verso il povero e lo sforzo di aiutarlo a mettere in valore tutte le sue capacità uscendo dallo stato di povertà, ma di per sé eguaglianza può anche significare la invidia sociale che vuole livellare le condizioni del ricco a quelle del povero. Per una parte della sinistra la voglia di spossessare i ricchi è stata più forte di quella di migliorare le condizioni dei poveri e si è preferita una società di eguali nella povertà ad una società di diffuso benessere in cui alcuni fossero più ricchi di altri. Il fine della politica economica deve essere aumentare il benessere generale o aumentare l’eguaglianza? Certo, il concetto di benessere generale può essere ingannevole. E’ possibile che la ricchezza complessiva di una società aumenti ma in essa i poveri diventino più poveri ed i ricchi diventino più ricchi. Non potremmo accettare un società così. Ma cosa è male: semplicemente l’aumento della disuguaglianza ovvero il peggioramento delle condizioni di vita dei più poveri? Uno studioso americano che ha avuto molta fortuna anche ( anzi soprattutto) a sinistra, John Rawls, ha scritto che è eticamente difendibile il fatto che alcuni diventino più ricchi a condizione che nel processo nessuno diventi più povero e anzi alcuni diventino meno poveri. La questione della eguaglianza è strettamente connessa con quella del controllo dello stato sull’economia. Il modo migliore di accrescere la ricchezza, infatti, è in genere quello di lasciare libertà alla iniziativa economica dei cittadini. Ciascuno di sforzerà di migliorare le proprie condizioni, alcuni vi riusciranno meglio di altri, ma nel loro sforzo essi trascineranno dietro anche il resto della società. La ragione di questo sta nel fatto che la principale risorsa economica, più ancora che la terra, sta nella voglia di lavorare, nella creatività e nella inventiva degli uomini. Nel linguaggio della economia moderna questa si chiama imprenditorialità. E’ la capacità di inventare combinazioni produttive efficaci e di rischiare per realizzarle. Se il fine della politica economica è l’eguaglianza bisognerà tenere strettamente sotto controllo l’iniziativa privata, se il fine è il miglioramento delle condizioni di vita di tutti (anche se in modo diseguale) allora l’iniziativa privata andrà incoraggiata. Certo, sarà necessario richiamare gli imprenditori alla loro responsabilità sociale, perché alla fine la crescita torni davvero a beneficio di tutti, ma la loro attività dovrà essere valutata in linea di principio come positiva e dovrà essere sostenuta e stimolata dai poteri pubblici. Abbiamo così individuato due distinzioni di principio fra la posizione della sinistra e la nostra: Noi siamo per la solidarietà , la sinistra è tentata dalla invidia sociale. La sinistra è statalista ( per realizzare l’eguaglianza) noi siamo per la libertà di iniziativa e diamo in economia allo stato un ruolo sussidiario. L’eguaglianza come la sinistra è tentata di interpretarla, sta in contraddizione con l’idea di merito. Gli uomini sono tutti eguali fra loro in dignità ( è ciò che abbiamo spiegato con l’aiuto della enciclica Dives in Misericordia). Ciascuno ha però delle qualità diverse tanto da essere unico ed irripetibile. Queste qualità diverse interagiscono con l’ambiente e da esse dipende il risultato dello sforzo dell’uomo sul lavoro. Alcuni avranno un successo maggiore, altri ne avranno uno minore. A volte il successo dipenderà da qualità morali, come per esempio la capacità di sacrificio o la capacità di lavorare con altri creando una squadra efficiente. A volte la differenza dipenderà da qualità moralmente neutre ( il dono di una particolare brillantezza intellettuale). A volte si tratterà anche dell’imponderabile e della fortuna ( essere il primo ad avere un’idea economicamente produttiva) . Nella maggior parte dei casi si tratterà di una mescolanza di tutte queste cose. Mentre l’invidia sociale e la concezione di eguaglianza che ad essa si apparenta vede con straordinario sospetto queste differenze per una visione realista della persona umana esse sono l’occasione perché si manifesti la solidarietà fra le persone. Proprio perché alcuni hanno più successo di altri noi siamo continuamente rimandati a costruire una rete di solidarietà in cui chi è più forte aiuta chi è più debole. Senza dimenticare che anche in questo vige un certo principio di reciprocità. Chi oggi è più forte potrebbe domani avere lui bisogno di aiuto e chi oggi è più debole potrebbe essere domani quello che gode del maggior successo. La solidarietà presuppone la differenza del merito e del successo e carica i più forti di maggiore responsabilità sociale. Si può naturalmente anche indagare i motivi del maggior successo di alcuni rispetto ad altri. Abbiamo già accennato al fatto che questi motivi non sempre dipendono dal merito. Molto è importante la famiglia. Dalla famiglia ereditiamo dei beni materiali, un patrimonio genetico ed una educazione. Sul patrimonio genetico il legislatore non può intervenire. Sui beni materiali interviene con le tasse di successione (tenendo conto tuttavia del fatto che il desiderio di lasciare qualcosa ai propri figli è una delle molle più potenti che inducono a lavorare, darsi da fare e quindi creare occupazione e sviluppo). L’intervento più importante possibile è quello sull’educazione. Anche esso naturalmente è solo parziale. Il primo soggetto della educazione è la famiglia ed è nella famiglia che si apprendono le virtù e le attitudini fondamentali. E’ vero però che qui la scuola ha un ruolo sussidiario ma fondamentale. Permettere che i giovani che vengono da famiglie modeste possano sviluppare a pieno le loro capacità intellettuali ed entrare sul mercato del lavoro con la massima dotazione possibile di capitale intellettuale è la cosa più importante che si possa fare per realizzare l’obiettivo della eguaglianza delle condizioni di partenza fra i cittadini. Potremmo sintetizzare le cose dette fino ad ora nella affermazione che, in materia di politica economica, la differenza principale fra noi e la sinistra riguarda il mercato. Il mercato produce ricchezza ma al tempo stesso produce disuguaglianza. Per la sinistra il mercato è in linea di principio sospetto. Davanti al fallimento delle economie di comando (comuniste) la sinistra si è adattata ad accettare in qualche modo il mercato ma resta in fondo convinta che esso sia un male da controllare nel modo più stretto possibile. Noi pensiamo invece che il mercato sia in linea di principio positivo, anche se sappiamo che esso può generare ingiustizie ( non tutte le disuguaglianza però sono ingiustizie) e pensiamo che la politica abbia il dovere di orientare ed organizzare la solidarietà per porre rimedio ai fallimenti del mercato, per evitare che la persona umana concreta possa essere travolta e schiacciata dai meccanismi di mercato. Come interverrà la politica per orientare il mercato? Il fallimento più grande del mercato è la disoccupazione di massa. E’ veramente terribile lo spettacolo di uomini che non hanno il necessario per vivere e non possono procurarselo con il loro lavoro. E’ proprio l’analisi di questo scandalo ciò che ha dato la massima forza di convincimento alla critica marxista del capitalismo. Nella economia capitalista – dice Marx- l’uomo non è un fine ma un mezzo. Il fine è l’accumulazione del capitale. Gli uomini troveranno lavoro solo se e finchè il loro lavoro sarà utile a generare plusvalore, un valore aggiunto di cui si appropriano i detentori dei mezzi di produzione. La economia di mercato, d’altro canto, è più efficiente di ogni altro tipo di economia proprio perché continuamente lo sviluppo della tecnica e l’affinamento della organizzazione del lavoro sono mirate a rendere3 possibile a un numero minore di persone di produrre ciò che prima veniva prodotto da un numero più grande. Quando in una impresa diventa possibile ottenere con il lavoro di dieci persone quello che prima si otteneva con il lavoro di dodici è intuitivo che dieci diventeranno più ricchi e due diventeranno disoccupati. Prima o poi anche i due disoccupati troveranno un nuovo lavoro, risponderanno ai nuovi bisogni che i dieci che sono diventati più ricchi sono adesso in grado di soddisfare e tutta la società vivrà meglio. Fra il prima ed il poi c’è però uno spettro che si chiama disoccupazione. Il disoccupato scopre di non avere nessun valore per il mercato e se il mercato è tutta la società questo vuol dire che non ha nessun valore per la società. Il lavoro è una merce che si vende e si compra liberamente ed in questa situazione è insito il rischio che anche la persona venga ridotta al rango di merce. Una merce che nessuno vuole è una merce senza valore ed un lavoratore che nessuno vuole, un disoccupato, è un uomo senza valore. Un poeta angloamericano , T.S. Eliot ha espresso in modo amarissimo la condizione del disoccupato: “Nessun uomo ci ha impiegati. Con le mani in tasca Ed il capo chino Ce ne andiamo in giro senza meta O rabbrividiamo in stanze senza luce. Solo il vento si muove Sui campi vuoti, non coltivati Dove l’aratro è fermo, di traverso Al solco. In questa terra ci sarà Una sigaretta per due uomini Per due donne soltanto una mezza pinta Di birra amara …. Il Times non da’ notizia della nostra nascita E nemmeno della nostra morte.”
Marx pensava che per rimediare a questo stato di fatto fosse necessario abolire il mercato e sostituirlo con il controllo pubblico di tutti i mezzi di produzione. Il risultato è stato fallimentare: senza mercato non cresce la produttività e la società diventa più povera. Il comunismo non realizza nemmeno l’eguaglianza: i beni prodotti vengono distribuiti secondo il merito politico e l’èlite politica si appropria la parte migliore.
Giorgio La Pira, un grande cristiano ed un grande democristiano, si pose lo stesso problema subito dopo la seconda guerra mondiale in Italia. Davanti al problema drammatico della disoccupazione di massa egli individuò nella economia keynesiana lo strumento per realizzare la piena occupazione. La Pira pensava che lo stato dovesse intervenire per creare il lavoro che il mercato non riusciva a creare. Lo stato interviene realizzando grandi opere pubbliche o anche dando risposta a bisogni sociali insoddisfatti (per esempio migliorando il sistema sanitario o il sistema pensionistico). Le opere pubbliche migliorano l’efficienza della economia e la spesa sociali mette più denari nelle mani della gente che li spende comprando le merci di cui ha bisogno e quindi stimolando le imprese che le producono a svilupparsi e ad assumere nuovi lavoratori. Lo stato diventa il datore di lavoro in ultima istanza, quello che attraverso le proprie decisioni di spesa (la legge finanziaria) determina la domanda di lavoro complessiva. E’ così semplice che sembra l’uovo di Colombo. C’è però un problema: chi paga per le opere pubbliche e per la spesa sociale? In altre parole: dove prende lo stato i soldi necessari per realizzare i posti di lavoro aggiuntivi necessari per raggiungere la piena occupazione? Se li preleva attraverso le tasse riduce la capacità di consumo e di investimento dei contribuenti e quindi la loro capacità di produrre ricchezza e posti di lavoro. E’ necessario che la spesa venga finanziata in deficit. Lo stato prende a prestito i denari o anche,semplicemente, stampa carta moneta. Se gli investimenti pubblici sono fatti in modo oculato è ragionevole immaginare che nel tempo essi si paghino da soli, cioè che essi generino un aumento di produttività che permetterà al paese di crescere ed in un paese più ricco crescerà anche il gettito fiscale e lo stato sarà in grado di pagare il suo debito. Questa politica economica è stata fatta propria dai democratici cristiani e per un lungo periodo ha anche ben funzionato. Poi è entrata in crisi. Un primo motivo di crisi è che si presta a molti abusi. Finchè si finanziano posti di lavoro produttivi è ragionevole pensare che essi nel tempo si ripaghino attraverso una crescita accelerata. E’ accaduto però che molte volte si siano finanziati posti di lavoro improduttivi e clientelari oppure che si siano sostenute in modo artificiale industrie ormai superate e non più competitive. Il risultato è stato un aumento insostenibile dell’inflazione e la esplosione del debito pubblico. Il paese si è diviso in una area che stava sul mercato esposta ai rischi della competizione internazionale ed un’area di lavoro protetto o anche di lavoro finto. Alla fine abbiamo avuto tassi elevati di inflazione e tassi elevati di disoccupazione contemporaneamente. Il problema più grave però è stato un altro. Il modello keynesiano suppone un livello elevato di sovranità dello stato sull’economia. Con la globalizzazione proprio questo elemento è venuto meno. Gli accordi GATT ( General Agreement on Tariffa and Trade, Accordi Generali sulle Tariffe doganali E sul Commercio) hanno ridotto drammaticamente le tariffe doganali e gli ostacoli al commercio internazionale. Per molto tempo noi abbiamo compianto i paesi poveri ed abbiamo anche mandato loro ingenti aiuti internazionali. Contemporaneamente li abbiamo tenuti fuori del commercio internazionale. Molti economisti davano la colpa del sottosviluppo al mercato, ma in realtà i paesi poveri dal mercato erano esclusi, Con gli accordi di Punta del Este, invece, i paesi poveri sono entrati nel mercato mondiale ed hanno cominciato a migliorare le loro condizioni di vita. Oggi essi vendono da noi i loro prodotti e ci fanno concorrenza soprattutto a causa del costo del lavoro che è molto più basso del nostro. Al centro del modello economico keynesiano c’era l’idea di “moltiplicatore”. Immaginiamo che lo stato assuma mille lavoratori. Non creerà in questo modo solo mille posti di lavoro. I mille lavoratori spenderanno il loro salario acquistando beni di consumo che dovranno essere prodotti da altri lavoratori e, per lavorare, avranno bisogno di materie prime e strumenti di lavoro che dovranno a loro volta essere prodotti da altri lavoratori. La spesa statale fa crescere la domanda aggregata ed in questo modo la spesa sostenuta dallo stato viene “moltiplicata” per un coefficiente variabile a secondo del tipo di investimento o spesa pubblica che consideriamo. E’ questo appunto il moltiplicatore. In un sistema di economia aperta è proprio il moltiplicatore a non funzionare più. Nulla infatti garantisce che i lavoratori assunti direttamente o indirettamente dallo stato spendano i loro denari per comprare merci italiane. E’ possibile, anzi probabile, che una parte più o meno grande del loro reddito vada a comprare merci straniere creando in questo modo posti di lavoro, ma all’estero e non in Italia. Più l’economia si internazionalizza e meno è possibile utilizzare la spesa pubblica per produrre gli effetti voluti di maggiore occupazione. Lo stato perde il controllo del mercato perché il mercato diventa mondiale mentre lo stato rimane nazionale. La globalizzazione agisce anche in un altro senso. Nello sforzo di evitare che il lavoratore sia ridotto al semplice ruolo di una merce fra le altre i governi democristiani avevano a suo tempo introdotto una elaborata legislazione del lavoro spostando i rapporti di forza all’interno dell’azienda a favore dei lavoratori. In particolare questo ha toccato il tema della stabilità del posto di lavoro. Se il lavoratore non è liberamente licenziabile, allora è difficile sostenere che il lavoro è semplicemente una merce o che il lavoratore diventa egli stesso una merce nella libera disponibilità del datore di lavoro. Per la verità questa legislazione del lavoro non ha funzionato molto bene. Da un lato non si è mai riusciti ad estenderla veramente a tutti i lavoratori. I lavoratori dello stato e della grande azienda hanno fruito di questi nuovi diritti, i lavoratori delle piccole aziende invece no. Dall’altro i sindacati non sono riusciti ad impedire che di esse si abusasse creando talvolta sacche di inefficienza e di improduttività che venivano alla fine pagate attraverso le tasse da tutti i contribuenti. Anche qui però, alla fine, il sistema si è rivelato incompatibile con la globalizzazione. Se questi obblighi sono imposti a tutte le aziende che competono sul mercato allora essi non generano un vantaggio competitivo particolare a favore di alcune di esse. Ma se il mercato diventa mondiale le imprese poste fuori dei confini nazionali non sono sottoposte agli obblighi sociali sanciti dalla legislazione italiana. Il divario è particolarmente forte con i paesi poveri. I salari lì sono bassi e la protezione sociale del lavoro praticamente non esiste. Non reggendo questo svantaggio competitivo le imprese italiane rischiano di uscire dal mercato o di chiudere. Molte, per evitare questo destino o comunque per sfruttare le occasioni offerte dalla nuova situazione, “delocalizzano”, cioè vanno a produrre in altri paesi e quindi cancellano posti di lavoro in Italia per crearne all’estero. Per tutti queste ragioni la economia keynesiana viene progressivamente abbandonata a partire dalla fine degli anni ’70. Passa, fra gli economisti e gli studiosi di politica economica, un nuovo indirizzo teorico, legato alla cosiddetta scuola di Chicago di Milton Friedman o anche alla elaborazione della scuola austriaca di F.von Hayek. Si tratta di indirizzi accentuatamente liberisti che chiedono che vengano liberate le energie del mercato e della libera iniziativa riducendo il sistema di vincoli e di “lacci e laccioli” che imprigionano gli “spiriti animali” del mercato. In effetti i paesi che hanno adottato coerentemente politiche liberiste di deregolamentazione dei mercati hanno avuto regolarmente tassi di crescita più elevati ( molto più elevati) di quelli che sono rimasti legati al vecchio modello keynesiano. La rivoluzione è stata iniziata da Ronald Reagan negli Stati Uniti e da Margaret Thatcher in Gran Bretagna. Successivamente queste politiche sono state adottate in molti paesi per lo più con effetti positivi. Abbiamo assistito, in un certo senso, ad una grande rivincita della destra liberale. E’ una vittoria contro la sinistra, simbolizzata dalla caduta del muro di Berlino. Ma è anche una vittoria contro il centro. La Pira, infatti, e anche J.M. Keynes non erano uomini di sinistra ma di centro. Non erano contro il mercato e non erano a favore di una eguaglianza astratta. Si domandavano invece in che modo sia possibile fare in modo che il mercato sia al servizio della persona umana, in che modo si possa rimediare ai fallimenti del mercato. Cosa diremmo noi a La Pira se fosse vivo e se potessimo parlare con lui? Gli diremmo che ha sbagliato tutto o che i democristiani di oggi hanno cambiato di atteggiamento umano fondamentale e sono diventati indifferenti alle “attese della povera gente”? No, gli diremmo semplicemente che condividiamo la sua preoccupazione per i poveri e per gli ultimi, la sua passione bruciante per ogni singola persona umana e per la sua dignità. Semplicemente per realizzare la medesima intenzioni oggi dobbiamo inventarci strumenti diversi, all’altezza della epoca storica nella quale viviamo. Eguale è l’intenzione di evitare che il lavoratore venga degradato al rango di merce, diversi sono i mezzi con cui quel fine può essere perseguito nel nostro tempo. Succede in politica economica la stessa cosa che succede in medicina. Con il tempo sono cresciuti nuovi batteri resistenti agli antibiotici (penicillina, streptomicina) che usavamo per curare le malattie ancora fino a non molti anni fa’. La scienza medica, naturalmente non si è arresa ma si è messa alla ricerca di altri mezzi di cura. La stessa cosa fa’ oggi la politica di centro. In un contesto cambiato cerca nuovi strumenti per affermare il primato del valore della persona sui valori del mercato. Intorno a noi vediamo da un lato un liberismo ed un liberalismo dottrinari. E’ quella destra che vive oggi una grande rivincita contro le politiche keynesiane e che vorrebbe un mondo in cui il ruolo dello stato fosse ridotto al minimo assolutamente indispensabile: la difesa esterna ed interna, la giustiziagli affari esteri ed il bilancio. Qualcuno si è sforzato di immaginare persino in che modo sarebbe possibile privatizzare anche la giustizia o la difesa esterna e interna sostituendole con meccanismi di mercato (es. Marray Rothbard). Noi non siamo liberali dottrinari. Sa mai siamo liberali pragmatici: sappiamo che le politiche keynesiane nel mondo di oggi non funzionano e devono quindi essere abbandonate, non riteniamo però che fosse sbagliata la preoccupazione etica che portò i democristiani ad adottare quelle politiche e intendiamo farla valere con mezzi diversi in un mondo che è cambiato. A sinistra invece c’è spesso una difesa disperata del passato. I risultati dell’epoca democristiana furono, al tempo della loro introduzione, aspramente contrastati dalla sinistra che allora voleva la collettivizzazione. Adesso vengono difesi come se realizzassero il paradiso perduto dei lavoratori. Questo atteggiamento è assai insidioso, perché fra la gente c’è in verità molta nostalgia di un mondo del lavoro più regolato e meno rischioso. Fra i lavoratori c’è ansia e c’è preoccupazione e la reazione immediata è quella di difendere il sistema che ha funzionato in passato cercando in tutti i modi di reprimere la coscienza del fatto che esso ormai da tempo ha cessato di funzionare. Fra il liberismo dottrinario ed il feticismo del passato bisogna aprire di nuovo il cammino del realismo, della difesa concreta dei diritti dell’uomo e dei diritti del lavoro nella società che cambia. E’ questo il compito del centro. Che fare? Abbiamo già sottolineato che il problema ha una dimensione globale. La politica non governa più l’economia perché l’economia è globale e la politica è soltanto nazionale. E’ necessario che la politica recuperi almeno in parte la sua sovranità. E’ necessario iniziare un percorso per arrivare ad un General Agreement on Wages and Labour ( un accordo generale sui salari e le condizioni di lavoro) che complementi ed integri gli accordi GATT ( General Agreement on Tariffa and Trade). Occorre cioè globalizzare la protezione dei diritti del lavoro. Gli effetti negativi della situazione attuale cominciano del resto a vedersi. In alcuni paesi i lavoratori non godono di nessuna protezione e sono esposti ad uno sfruttamento vergognoso che è particolarmente intollerabile quando colpisce le donne ed i bambini. Si tratta spesso di paesi sottoposti a dittature comuniste che non danno garanzie sui diritti umani, reprimono la libertà di parola e di religione e non consentono libertà di organizzazione sindacale e di lotta per la difesa dei diritti del lavoro. Certo, bisogna essere realisti. Nonostante tutto questi paesi, da quando sono entrati nel mercato globale, hanno realizzato straordinari miglioramenti. In molti casi la condizione precedente lasciava moltissimi lavoratori esposti al rischio realissimo della morte per fame. Di più: per poter vivere questi paesi avranno bisogno per un periodo ancora relativamente lungo di poter avere un costo del lavoro più basso del nostro e di una legislazione di tutela del lavoro meno stringente. E tuttavia è tempo di iniziare un percorso che porti verso una globalizzazione graduale dei diritti del lavoro. In quegli stessi paesi i lavoratori cominciano a reclamare un miglioramento della loro condizione. Modi di produzione che non proteggono la salute dei lavoratori hanno effetti nocivi anche sulle merci che vengono messe sul mercato. Noi abbiamo, per esempio, in Europa regolamenti stringenti sull’uso delle sostanze chimiche nei processi di produzione, a tutela della salute dei lavoratori e di quella dei consumatori. Nei paesi emergenti spesso non vi è in questo ambito nessuna regola e è capitato spesso che prodotti di quei paesi dovessero essere ritirati dal mercato perché pericolosi. Quanti dei prodotti che noi importiamo resisterebbero ad un esame rigoroso che dimostri che essi sono stati fatti obbedendo alle stesse regole che noi ci siamo dati a tutela dell’ambiente e dei consumatori? E possiamo totalmente disinteressarci della salute dei lavoratori che hanno prodotto quelle merci, nel caso che i danni si estendano solo ai lavoratori ed anche ai consumatori? E saremo del tutto indifferenti al fatto che le merci che importiamo e consumiamo siano state prodotte, per esempio, con il lavoro schiavo dei bambini? Sia chiaro: noi non proponiamo un atteggiamento neoprotezionista. Dire ai paesi emergenti che non possono esportare sui nostri mercati significherebbe cercare di ricacciarli nella situazione di disperazione di qualche decennio fa’. Sarebbe come dire che l’unico modo di migliorare la loro condizione è fare la guerra a noi perché l’ordine internazionale che noi difendiamo li condanna alla fame ed alle malattie. Possiamo però vincolare l’accesso ai mercati ricchi dell’Europa e del Nordamerica ad un livello minimale e crescente dei diritti umano in generale e dei diritti del lavoro in particolare. Questo farebbe bene ai lavoratori di quei paesi ma farebbe bene anche ai lavoratori dei nostri paesi, specialmente quelli che hanno qualifiche più basse e lavorano in settori esposti alla concorrenza del lavoro a basso costo dei paesi emergenti. La competizione avverrebbe più sulla innovazione e sulla qualità del prodotto e meno sulla compressione dei salari e delle garanzie per i lavoratori. Per arrivare agli accordi GATT è stato necessario un processo negoziale lunghissimo , difficile e complicato. E’ ovvio che arrivare ad accordi internazionali per la difesa dei diritti del lavoro significa affrontare difficoltà probabilmente ancora più grandi. Occorre grande pazienza e grande determinazione. Il passo più difficile di un lungo percorso è però il primo e questo primo passo oggi è necessario fare. Si potrebbe partire forse dagli stessi accordi GATT che contengono alcune clausole che possono essere applicate alla difesa del lavoro e procedere poi verso un trattato complessivo con norme più precise e stringenti. L’Italia non può procedere da sola su questo percorso. E’ necessario costruire un ampio sistema di alleanze internazionali, a partire dalla Unione Europea. Fino ad oggi l’Unione Europea non è riuscita ad unirsi su di un progetto di difesa dei diritti del lavoro all’interno dei propri confini. Questo è in parte dovuto al fatto che i paesi excomunisti avevano bisogno in una prima fase, per poter vivere e svilupparsi, di sfruttare al massimo la loro risorsa principale: il lavoro a basso costo. Esistono anche resistenze di altri tipo, più ideologiche, provenienti da quel liberismo dogmatico a cui già abbiamo accennato e che è forte soprattutto nei paesi anglosassoni. Esse vanno comunque superate perché è difficile proporre con autorevolezza una accordo mondiale sulla difesa dei diritti del lavoro se non esiste almeno un abbozzo di politica sociale comune europea. Su di una cosa dobbiamo essere chiari: anche dopo un auspicabile recupero di sovranità della politica sulla economia, un ritorno alle politiche assistenziali tipiche degli anni della decadenza del keynesismo non è possibile e nemmeno desiderabile. Una cosa è finanziare il deficit grandi lavori pubblici, dove si può ragionevolmente sperare che con il tempo i vantaggi dell’opera facciano corrispondentemente aumentare il prodotto complessivo, un’altra cosa è semplicemente aumentare la spesa pubblica pagando chi fa’ finta solo di lavorare o finanziando imprese sistematicamente in perdita che consumano più di quanto producano. Questo non solo è impossibile ma è anche immorale. Il compito sociale dell’impresa è produrre ricchezza per far fronte ai bisogni sociali. Una impresa che sistematicamente consuma ricchezza invece di produrla è una truffa a danno dei contribuenti che devono sussidiare un lavoro socialmente inutile. In ogni caso prima che la politica possa recuperare sovranità sulla economia dovrà passare del tempo ( almeno alcuni decenni). Come si governa la economia italiana in questo lasso di tempo? Che politiche econo0miche possono essere efficaci in una fase storica in cui l’economia è più forte della politica? Le politiche tradizionali miravano a difendere il posto di lavoro. La non licenziabilità del lavoratore lo difendeva dalla disoccupazione, lo tutelava dalle possibili angherie del datore di lavoro, ne garantiva la dignità umana e faceva in modo che non fosse ridotto al rango di un qualsiasi fattore produttivo il cui uso dipende esclusivamente dalla sua capacità di produrre un utile per l’impresa. La tutela del posto di lavoro fisso supponeva una serie di condizioni che sono rapidamente venute meno. Essa era plausibile in una epoca storica in cui la innovazione tecnologica era relativamente lenta. Oggi il progresso tecnico/scientifico ed organizzativo rende necessaria una grande ristrutturazione in media ogni cinque o sei anni. In queste ristrutturazioni posti di lavoro vengono cancellati e molti mestieri spariscono. Quando nella costruzione delle automobili l’acciaio per molti usi è stato sostituito dalle materie plastiche o da leghe di tipo diverso per molti posti di lavoro non c’è stata salvezza. Non fare la ristrutturazione significa uscire dal mercato e dovere chiudere. Farla significa che molti lavoratori devono essere licenziati. Davanti al rischio di disoccupazione in una grande azienda sembra ragionevole mobilitarsi, chiedere che i licenziamenti vengano revocati e magari alla fine chiedere che lo stato rilevi lui l’azienda e la faccia andare avanti anche se essa è diventata antieconomica. In realtà oggi questo è impossibile. Per un verso questo significa consumare risorse invece di produrne aggravando le condizioni di lavoro e di vita degli altri lavoratori. Per un altro aspetto all’interno del mercato comune europeo un simile comportamento è vietato. Si chiama “aiuto di stato” e non è consentito perché distorce la concorrenza. Infine se si impone ad una impresa di rinunciare a decisioni che sono diventate improrogabili per la sua vita ed il suo sviluppo è sempre possibile che l’azienda abbandoni il territorio nazionale e si “delocalizzi” vada cioè a produrre in un altro posto. Alla fine per impedire alcuni licenziamenti in una azienda che avrebbe potuto essere salvata si finisce con il fare perdere il posto di lavoro a tutti i lavoratori di quella azienda. La necessità del cambiamento e della riduzione dei posti di lavoro può essere il risultato di cambiamenti tecnologici, ma può anche essere il risultato del fatto che entrano sul mercato del lavoro paesi nuovi con un costo del lavoro di molti più basso. Anche in questo caso una azienda italiana può essere costre3tta a cambiamenti drastici, che implicano la perdita di molti posti di lavoro. Che fare? Bisogna distinguere a questo proposito fra strategie di lungo periodo e strategie di breve periodo. Nel lungo periodo la politica può intervenire rendendo conveniente per le imprese il restare o il venire in Italia. Bisogna porsi la domanda: perché le imprese dovrebbero venire a produrre in Italia? L’Italia è un luogo buono per lavorare prima di tutto a causa della qualità dei suoi lavoratori. Allora bisogna migliorare la qualità dei lavoratori italiani. I paesi emergenti ci fanno concorrenza su produzioni a basso costo del lavoro ed a basso contenuto informativo ( in cui è investita poca tecnologia e poca cultura). Se vogliamo sfuggire ad una concorrenza fondata sull’abbassamento del costo del lavoro dobbiamo imparare a fare cose che i paesi emergenti non sanno fare. Mille analfabeti non sanno fare il lavoro di un solo ingegnere. Dobbiamo aumentare il livello della nostra scuola e della nostra università. Dobbiamo spiegare agli studenti che a scuola si va per imparare, che la scuola può essere dura ma non sarà mai dura come la vita e che quindi a scuola bisogna dare il meglio di se. Parole come impegno, disciplina, sforzo, merito devono tornare ad avere un senso per i nostri studenti. Dobbiamo produrre un maggior numero di brevetti ed avere un maggior numero di prodotti basati sulla nostra ricerca scientifica. Prodotti così sono difficilmente imitabili e la concorrenza, in questo campo, non si fa’ sul basso costo del lavoro ma sulla qualità della ricerca che sta dietro il prodotto. Dobbiamo investire sulla scuola, sull’università e sulla ricerca scientifica. Dobbiamo ridurre la spesa corrente per accrescere l’investimento in educazione. Per fare questo abbiamo però bisogno di una scuola e di una università che funzionino davvero, in cui gli insegnanti bravi vengano premiati e quelli cattivi svantaggiati o licenziati e corrispondentemente venga premiato il merito degli studenti. Egualmente importante è il problema della formazione professionale. Noi italiani non siamo molto forti nella tecnologia pesante e solo una parte limitata delle nostre esportazioni è protetta da brevetto. Siamo invece dei campioni nella innovazione in ambiti a tecnologia leggera nei quali la qualità del disegno o della fattura artigianale ci permettono di ottenere risultati di assoluta eccellenza. Spesso però questi saperi artigianali non sono sufficientemente curati. La trasmissione di questi saperi attraverso un sistema di formazione professionale di qualità è parte anch’esso di una strategia per la valorizzazione del lavoro italiano. L’Italia attira insediamenti produttivi anche per la sua collocazione geografica e per il sistema infrastrutturale di cui è dotata. Se si produce nei paesi emergenti occorre poi affrontare spesso costi molto elevati per raggiungere i mercati di sbocco che sono collocati nei paesi più ricchi. Il processo produttivo tende a concentrarsi in quelle aree dalle quali è oiù facile l’accesso ai mercati. Il rafforzamento del sistema infrastrutturale è un altro elemento che attira investimenti produttivi. Inevitabilmente l’Italia dovrà perdere molte produzioni ma potrà acquistarne altre. Anche i processi di delocalizzazione possono essere orientati in modo tale da ridurre gli svantaggi ed accrescere i vantaggi ad essi legati. Spesso si possono spostare in altri paesi le lavorazioni che richiedono più lavoro poco qualificato e mantenere in Italia quelle a maggior valore aggiunto. Per articolare così su ampi spazi i processi produttivi è però necessario disporre di sistemi logistici di alta qualità e di assoluta affidabilità. La logistica diventa il perno strategico dello sviluppo. Tutte le politiche che abbiamo sommariamente elencato richiedono tempi lunghi per andare a regime. Se si risana la università oggi e si inizia una linea produttiva di ricerca scientifica i risultati non arriveranno prima di alcuni anni. Egualmente se impostiamo oggi un grande programma di rafforzamento del sistema logistico italiano passerà qualche decennio prima che le opere siano completate e si vedano i risultati. Nel frattempo che fare? Dobbiamo rendere più flessibili i nostri sistemi di lavoro e non possiamo costringere le aziende a ritardare i processi di ristrutturazione per difendere posti di lavoro che non hanno più alcun senso economico. Invece di ostinarci nella difesa impossibile di posti di lavoro ormai inevitabilmente obsoleti dobbiamo concentrarci sulla difesa del lavoratore che ha perso il posto di lavoro. In altre parole: non possiamo mettere la solidarietà a favore del lavoratore che perde il posto di lavoro interamente a carico dell’impresa che ha bisogno di ristrutturare. E’ allora necessario garantire al lavoratore un reddito adeguato nel periodo di disoccupazione, legato alla frequenza di corsi di formazione orientati che gli permettano di riqualificarsi recuperando per quanto possibile la sua professionalità precedente ed orientandosi verso i nuovi mestieri e le nuove opportunità offerte dal mercato. Come abbiamo già detto il sistema di libero mercato cambia continuamente la divisione del lavoro umano cancellando posti di lavoro ma anche creando nuove opportunità. Ecco il perché è così importante quella flessibilità che oggi viene invocata ad ogni piè sospinto come la chiave della competitività del nostro sistema. Non si può difendere chi sta fermo. Bisogna imparare a muoversi in un mondo che cambia ed aiutare il lavoratore a valorizzare al meglio le proprie potenzialità in un ambiente che si trasforma. Naturalmente nessuno può vivere in una situazione di instabilità permanente. L’uomo desidera naturalmente sfruttare le opportunità che gli si offrono, ma l’uomo ha anche un originario bisogno di sicurezza. Essere membro di una comunità, avere degli amici, appartenere ad un sindacato domani sarà più importante di quanto non lo sia oggi. Le reti di sicurezza di domani non potranno essere tutte concentrate nelle mani dello stato. Esse saranno tanto più efficaci quanto più saranno decentrate e rese vicine all’utente. Per questo sarà fondamentale la dimensione comunitaria secondo il principio di sussidiarietà. Sarà importante sia la sussidiarietà verticale (il trasferimento di funzioni dallo stato alle regioni ed ai comuni) sia quella orizzontale ( il trasferimento di funzioni dallo stato alle famiglie, alle associazioni ed alle comunità volontarie). La solidarietà della fase nuova che stiamo vivendo deve essere una solidarietà mobile, non statica. E deve essere una solidarietà che lavora insieme al mercato e non contro di esso. Questo punto è particolarmente importante: nella sinistra italiana vi è un atteggiamento fortemente radicato di ostilità contro il mercato. La solidarietà viene opposta al mercato come fra solidarietà e mercato esistesse una contraddizione di principio come se per fare solidarietà fosse necessario sempre e comunque distorcere i meccanismi di mercato. Il nostro approccio è diverso. Non crediamo in una armonia prestabilita fra mercato e solidarietà ma non crediamo nemmeno in una opposizione di principio. Pensiamo anzi che quando si riesce a fare lavorare insieme in sinergia mercato e solidarietà i risultati sono migliori. In generale questo avviene quando la solidarietà non è centralizzata a livello statale ma decentrata sul territorio e valorizza anche le associazioni volontarie e soprattutto le famiglie. La chiave per coniugare in modo creativo mercato e solidarietà è il principio di sussidiarietà. Torniamo adesso alle condizioni che attraggono investimenti, capitale e lavoro sul territorio di uno stato. La nostra analisi non sarebbe completa se non nominassimo, accanto alla qualità della forza lavoro ed al livello delle infrastrutture, anche il livello della imposizione fiscale. Abbiamo accennato al fatto che le produzioni si globalizzano. Sempre più spesso le diverse componenti di un diverso prodotto si producono in paesi diversi e sono poi combinati fra loro e montati ancora in altri paesi. Il risultato è che rapporti internazionali si intrecciano all’interno della medesima azienda ed è sempre più facile scegliere in modo perfettamente legittimo il domicilio fiscale della propria azienda, cioè il luogo in cui pagare le tasse. La competizione fra i diversi paesi per attrarre investimenti e posti di lavoro sul proprio territorio diventa quindi inevitabilmente competizione fiscale. Un paese che abbia livelli di imposizione più alti di quelli dei suoi competitori rischia di perdere contribuenti ed entrate fiscali ma anche investimenti e posti di lavoro. E’ necessario quindi arrivare ad un chiarimento in linea di principio in materie di politiche fiscali: scopo della tassazione è ridistribuire il reddito secondo modelli egualitaristici o favorire una abbondanza di posti di lavoro e dei occasioni di guadagno per i lavoratori? Se il nostro obiettivo è una società egualitaria avremo tasse elevate e meno posti di lavoro, se privilegeremo il secondo avremo una società prospera e solidale. Tutte queste questioni vanno inquadrate, come noi peraltro abbiamo cercato di fare, nell’ottica della globalizzazione. Gli ottimisti dicono che alla fine la globalizzazione porterà più benessere e prosperità per tutti. I pessimisti pensano invece che essa sia un mostro destinato a travolgere la nostra società e la nostra cultura generando sofferenze e lutti. Noi tendiamo ad essere piuttosto ottimisti ma non ci nascondiamo il fatto che nel medio periodo la globalizzazione porta con se anche enormi problemi. La globalizzazione è positiva perché i paesi poveri del mondo hanno finalmente una vera occasione per crescere. La globalizzazione crea però tre tipi di problemi. Esistono paesi poveri che non sono riusciti ad agganciare la globalizzazione. Sono soprattutto i paesi dell’Africa e (in parte) dell’America Latina. Questi paesi rischiano di perdere una occasione storica e di precipitare in un abisso ancora molto peggiore di quello nel quale si trovano. Esistono problemi per i poveri dei paesi ricchi. Le produzioni a contenuto tecnologico più povero ed a minore valore aggiunto si spostano dai paesi ricchi ai paesi poveri. I lavoratori meno qualificati dei paesi ricchi perdono il posto di lavoro. Bisogna governare il processo creando milioni di posti di lavoro nuovi in settori non esposti alla concorrenza dei paesi emergenti, posti di lavoro ad alto contenuto tecnologico o posti di lavoro nei servizi o nel turismo. Nel lungo periodo, naturalmente, ci si avvierà ad una certa parificazione dei salari nei paesi ricchi e nei paesi poveri, ma per una intera generazione noi dobbiamo mantenere una certa superiorità tecnologica se vogliamo pagare ai nostri giovani salari che consentano loro di mantenere un tenore di vita che noi consideriamo accettabile. Dalla globalizzazione usciranno profondamente cambiati i rapporti fra le nazioni. Alcuni grandi paesi usciranno dal sottosviluppo e dalla povertà (p.es. Cina ed India). Altri perderanno relativamente di peso. Qualche paese ricco che non riesca ad adeguarsi al cambiamento potrebbe scivolare nella povertà. L’Italia ha qualche motivo di preoccupazione: sono diversi anni che il paese non cresce o comunque cresce meno dei paesi che sono suo punto di riferimento. E’ evidente che l’Italia tarda a comprendere il nuovo sistema delle relazioni economiche internazionali e ad inserirsi in esso. Se volgiamo lo sguardo al dibattito politico in corso in Italia su questi temi vediamo che esso si concentra sulla cosiddetta legge Biagi , di cui la sinistra chiede di fatto l’abolizione. Il sistema italiano di protezione del lavoro si è incardinato a lungo sulla difesa del posto fisso. Con il tempo è però diventato sempre più evidente che la difesa del posto di lavoro fisso si paga con la riduzione dei posti di lavoro disponibili. Se non esiste la possibilità di licenziare in caso di necessità le aziende preferiscono non assumere e rinunciano anche a possibilità di ingrandirsi e crescere. Piuttosto che assumere per far fronte a nuove commesse la cui durata è però incerta nel tempo si preferisce non rischiare chiudendosi nella propria nicchia di mercato. In realtà poi la garanzia del posto di lavoro non si estende in modo eguale a tutti i lavoratori. Ne sono esclusi i lavoratori delle piccole imprese, quelle con meno di quindici addetti. Di nuovo: le imprese spesso preferiscono non crescere per non doversi assoggettare a vincoli eccessivi. Spesso nascono intricate piccole holding che hanno solo la funzione di d spezzettare un processo produttivo di per sé unitario per non superare in nessuna delle aziende coinvolte il limite fatidico dei quindici occupati. Ancora più grave è il fatto che molte unità produttive lavorano in tutto o in parte in nero. Moltissimi lavoratori lavorano senza nessuna garanzia e fuori della legalità. I lavoratori dell’Italia emersa godono di garanzie probabilmente superiori a quelle di qualunque altro paese europeo. Quelli dell’Italia sommersa lavorano senza nessuna garanzia. Da questa situazione si comincia ad uscire con il cosiddetto pacchetto legislativo Treu e poi con la legge Biagi. Benché siano stati approvati l’uno da un governo di centrosinistra e l’altro da ung governo di centrodestra l’ispirazione dei due provvedimenti è sostanzialmente la stessa, tanto che possono essere considerati come due tappe di un unico processo riformatore. Si tratta fondamentalmente di legalizzare il lavoro a termine. Allo spirare del tempo del contratto l’impresa ha la scelta di rinnovarlo oppure no. A questo si aggiungono forme di collaborazione che in teoria sarebbero prestazioni di servizio all’azienda da parte di lavoratori indipendenti ma in realtà sono spesso mascheramenti più o meno ben riusciti di forme di lavoro dipendente. Queste riforme hanno realizzato un vero e proprio miracolo: l’occupazione è cresciuta e la disoccupazione è corrispondentemente diminuita da poco meno del 12% della forza lavoro a poco più del 7%. Per molti giovani lavoratori il contratto a termine si è poi consolidato in contratto di lavoro a tempo indeterminato. Per altri invece no. Residua un’area importante di lavoro precario. Si diffonde così la parola d’ordine della lotta al precariato. Che fare? Da un lato dobbiamo tutti renderci conto del fatto che in un mondo mobile la probabilità di dovere cambiare lavoro almeno una volta nella vita è elevata. Per questo è necessario per tutti non adagiarsi mai, tenere gli occhi aperti, migliorare la propria qualificazione professionale e le proprie capacità di ricollocarsi sul mercato del lavoro. Dall’altro è pur vero che per formulare un progetto di futuro, sposarsi, comprare una casa etc… un certo grado di stabilità è pure necessario. La stabilità è pure necessaria per sentire di appartenere ad una impresa intesa anche come comunità di persone. Senza il sentimento di appartenenza non cresce la partecipazione ai fini dell’impresa e non cresce quindi neppure la capacità di dare ad essa un contributo creativo. Il problema di camminare verso la stabilità e di superare la precarizzazione dei rapporti di lavoro dunque esiste. Che fare? E’ necessaria una proposta coraggiosa per andare oltre la legge Biagi. Rispetto ad essa non si può tornare indietro, se non si vuole trasformare tanti precari in disoccupati. E’ però possibile uscire dal precariato in avanti. E’ necessario istituire un contratto a tempo indeterminato che non contenga però la clausola di inamovibilità del lavoratore. Come abbiamo già ricordato il paese con il minimo livello di lavoro precario è la Danimarca. La Danimarca è però un paese in cui è possibile licenziare in caso di necessità pagando una giusta penale ma in cui nessun datore di lavoro è mai stato obbligato a tenersi un lavoratore per il quale non avesse una occupazione produttiva. Ovviamente questa libertà di uscire dal rapporto di lavoro va accompagnata con altri provvedimenti a cui abbiamo già accennato: il sussidio di disoccupazione, la formazione professionale e l’aiuto nella ricerca di un nuovo lavoro. L’ideale è l’accompagnamento da posto a posto di lavoro. Le riforme che siamo venuti proponendo chiedono un dialogo nuovo da condurre con il movimento sindacale. Nel sindacato italiano ha avuto a lungo la prevalenza la cultura del posto fisso e della difesa del posto fisso. Adesso è necessario cambiare. Alcuni pensano che il cambiamento possa avvenire solo attraverso un grande scontro sociale concluso con la sconfitta del sindacato. Qualcosa di analogo a ciò che accadde in Gran Bretagna quando il sindacato dei minatori guidato da Scargill dovette cedete davanti a Lady Thatcher e da lì iniziò il declino dei sindacati in Inghilterra. Noi crediamo che sia per l’Italia una grande ricchezza l’esistenza, nel movimento dei lavoratori, di forti componenti di tradizione non marxista che sanno capire le nuove esigenze del mondo del lavoro, che contrattano duramente in difesa dei lavoratori ma hanno anche una visione non ideologica simile alla nostra che le aiuta a vedere quali sono i veri interessi di lungo periodo dei lavoratori. Speriamo dunque che su questi temi sia possibile il dialogo con il sindacato e nel sindacato. Nel mondo di domani i lavoratori avranno bisogno ancora di sindacati dedicati alla difesa dei loro diritti ed alla organizzazione della solidarietà dei lavoratori. Questi sindacati dovranno inevitabilmente essere diversi da quelli a cui ci hanno abituato gli anni della guerra fredda e della lotta di classe , dovranno essere sindacati non della lotta di classe ma della solidarietà. Siamo partiti da Giorgio La Pira, dalla sua passione per i poveri e dal suo ascolto delle “Attese della Povera Gente”. Siamo partiti da La Pira che è stato il vero teorico del keynesismo per ragioni cristiane. I tempi sono cambiati ma le finalità ed i valori restano gli stessi: difendere la persona umana, impedire che essa si riduca ad essere solo un ingranaggio del mercato o, peggio, che venga dilaniata dai meccanismi di mercato. Con i tempi devono però cambiare anche gli strumenti ed i meccanismi politici attraverso i quali i valori vengono realizzati. Nell’epoca della globalizzazione la difesa dell’uomo non coincide con la difesa del posto di lavoro fisso: bisogna passare dalla tutela del posto di lavoro alla tutela del lavoratore, e questa tutela deve essere sufficientemente flessibile ed intelligente per accompagnare il lavoratore da un posto di lavoro ad un altro. E’ , questo, l’approccio di un liberalismo pragmatico e non dogmatico che non rinnega il compito dello stato nel superare i colli di bottiglia dello sviluppo ma sa riconoscere in generale il ruolo del mercato come strumento di libertà ed in particolare le condizioni particolari che il nostro tempo, il tempo della globalizzazione, impone alla nostra ricerca di una politica al servizio della persona umana. Siamo partiti da La Pira. In chiusura vogliamo ricordare fugacemente l’insegnamento di un altro grande del pensiero democratico cristiano, don Luigi Sturzo. Sturzo diffidò sempre (in certi momenti in modo perfino esagerato) dello statalismo in economia. Non che egli non vedesse i molteplici effetti positivi che possono nascere da un intervento dello stato ben orientato e consapevole dei propri limiti. Egli però temeva lo statalismo: la “concupiscentia irresistibilis”, che spinge lo stato ad accumulare poteri sempre più grandi nelle sue mani, a distorcere il mercato, a premiare i fedeli e non i meritevoli, a sostenere in caso di necessità le corporazioni più forti facendo pagare i costi dell’intervento alla generalità dei cittadini, ed in modo maggiore a quelli più bisognosi. Anche Sturzo era un liberale non dottrinario ma pragmatico, come noi vogliamo essere. Agli inizi di un secolo nuovo noi vogliamo portare in esso il bagaglio dei valori che non cambiano ma vogliamo affrontare i problemi nuovi che stanno davanti a noi con la libertà di pensiero e la curiosità intellettuale che solo possono aiutarci a scoprire le “idee ricostruttive” della politica all’altezza delle sfide del tempo nuovo.