Il mito del Big Government: Theodore J. Lowi e l’analisi delle politiche pubbliche di Maurizio Serio
Theodor J. Lowi (1931) è considerato fra i più influenti politologi statunitensi degli ultimi quarant’anni (ha ricoperto la carica di presidente della “American Political Science Association”), nonché il fondatore dell’analisi delle politiche pubbliche, cui dedicò uno dei suoi primi lavori nel 1964[1]. Si trattava di una recensione al volume di Bauer, Pool e Dexter American Business and Public Policy, ma scatenò successivamente un’ondata di interventi e un lungo dibattito che gli ottennero in breve tempo una cattedra presso la prestigiosa Cornell University di Ithaca, NY. Venendo ai contenuti specifici di questo breve saggio, che ritroveremo in formulazioni sempre più aggiornate nei suoi successivi lavori, possiamo dire che Lowi si posiziona al di fuori del dibattito coevo vigente nella scienza politica nordamericana. Egli infatti supera le posizioni sia dei pluralisti-conflittualisti, che con Dahl vedevano nella lotta per il potere “un’aperta competizione” tra gruppi, sia degli elitisti, che con Wright-Mills collocavano nella stanze dei bottoni alcune oligarchie più o meno ristrette e dalle quali dipendeva in ultima istanza l’esercizio del potere decisionale. Lowi dimostrava come questi approcci, benché non fallaci, fossero comunque insufficienti per interpretare il sistema politico, se adoperati in maniera univoca e autoreferenziale. In altre parole, Lowi postulava che entrambi questi assetti di potere potessero darsi in specifici ambienti della politica, che lui chiama “arene”. In sostanza, la rivoluzione concettuale di Lowi consta di due perni fondamentali: la scomposizione, in più aspetti, della politica (politics) in “politiche pubbliche” (policies) e l’esistenza di contesti dipendenti dal potere centrale ma fra di loro distinti e differentemente analizzabili – le “arene”, appunto. Lo sforzo interpretativo sotteso ad una simile concezione è evidente: sottrarre le politiche pubbliche dalla palude dei case studies in cui erano confinate quasi come fossero un argomento residuale rispetto all’analisi del sistema politico degli USA, intanto assurto alla dignità di disciplina autonoma negli atenei col nome di American Government. Anche in questo passaggio possiamo osservare una bivalenza che depone a favore della ricchezza intellettuale di Lowi: da un lato egli non cessa di riferirsi alla realtà e ai codici della storia e della tradizione statunitense; dall’altro, però, egli “europeizza” la disciplina, introducendo concetti continentali come quello di Stato (nel senso di centro propulsore della policy oltre che come teatro riconosciuto della politics) in un contesto di common law quale quello nordamericano che gli è da sempre indifferente quando non ostile. Il ruolo normativo dello Stato è considerato da Lowi imprescindibile per un’analisi esaustiva delle politiche pubbliche (non a caso il suo programma è sintetizzabile nel motto Bringing the State Back In) proprio perché le four arenas di cui sopra vengono distinte sulla base del modo in cui si manifesta il potere di coercizione statale ovvero dal tipo di politiche pubbliche che vi vengono decise. Infatti, una politica pubblica può essere definita semplicemente come una intenzione espressa ufficialmente e appoggiata da una sanzione. Per quanto sinonimo di legge, comando, statuto, editto e regolazione, politica pubblica è il termine che viene oggi preferito, probabilmente perché, rispetto ad altri termini, trasmette un’impressione di flessibilità e moderazione. […][Nessuno] dovrebbe mai dimenticare che policy e police hanno origini comuni[2]. E ancora: Una politica pubblica è, dunque, una norma formulata da una qualche autorità governativa che esprime una intenzione di influenzare il comportamento dei cittadini, individualmente o collettivamente, attraverso l’uso di sanzioni positive o negative[3]. L’assunto di fondo è che “le” politiche determinino “la” politica e se l’essenza di quest’ultima è il potere, occorre vedere l’ampiezza dell’applicazione del comando, ovvero se esso sia riferito a un singolo individuo o al contesto globale (c.d. “ambiente” della policy) e se le sue ricadute (o sanzioni coercitive) abbiano probabilità certa (immediata) o remota di verificarsi. Osservando la combinazione di queste quattro variabili lungo gli oltre due secoli di attività del Congresso degli USA, Lowi elabora uno schema in cui divide lo spazio politico in altrettante arene in cui si muovono attori politici diversi (e in tal modo le stesse issues diventano i principali indicatori del tipo di sistema politico in atto): 1) ARENA DISTRIBUTIVA, dove il riferimento è all’individuo e la coercizione è remota, e dove si attuano politiche di patronage, di elargizione e concezione di benefici, fondamentalmente a pagamento, a grandi gruppi di interesse, come accaduto per tutto il XIX secolo americano (si pensi al “mito della frontiera” descritto da Turner, ma anche a quell’immagine mitica della ferrovia che anonime compagnie costruivano su territori vergini alimentando speranze, invidie e sconvolgimenti – riassumibili esemplificando nelle immagini del C’era una volta il West di Sergio Leone). 2) ARENA COSTITUENTE (riferita all’ambiente/coercizione remota), è lo spazio proprio dei partiti, che negli USA hanno creato le regole del gioco e hanno potuto farlo in quanto non avevano aspirazioni programmatiche “forti” né tanto meno suggestioni ideologiche radicate. Si può dire che il loro merito storico sia di aver consentito la sopravvivenza di un assetto sociopolitico altrimenti facilmente alla mercé della disomogeneità della Nazione e delle tensioni identitarie con le minoranze. 3) ARENA REDISTRIBUTIVA (riferita all’ambiente/coercizione immediata), in cui avviene un trasferimento di risorse da un gruppo sociale ad un altro, e si configura il meccanismo del Welfare e in genere del diffuso intervento statale, con un sistema di tassazione progressiva e l’implementazione di programmi di assistenza socio-previdenziale. 4) ARENA REGOLATORIA (riferita all’individuo/coercizione immediata), che contiene le politiche dell’ordine pubblico e provvedimenti che ricadono immediatamente sulla sfera delle libertà individuali, come le politiche sull’immigrazione o sulle “quote” riservate alle minoranze per i posti pubblici e nelle università. Lo sviluppo politico degli USA è stato limitato per un lungo periodo alle prime due arene, dato che l’arena redistributiva in pratica non esisteva prima del New Deal, mentre la funzione regolatoria veniva demandata ai singoli Stati (donde il carattere “conservative” delle loro politiche) – almeno fino all’avvento del reaganismo che ha tentato (con successo) di riportare al “centro” dello Stato Federale tematiche che mancavano di uniformità legislativa e campi che abbisognavano di nuove regole del gioco per essere fecondi nel servizio ai cittadini (un esempio sono le politiche nel campo dell’istruzione[4]). D’altro canto, l’espandersi del potere federale in quelle zone grigie ove tradizionalmente esso faceva raramente capolino e dunque, almeno in un primo momento, l’avocazione “al Centro” di tutte le issues provenienti dal territorio nazionale, ha comportato già nell’esperimento roosveltiano una proliferazione dell’apparato burocratico e del volto impersonale della politica. Ciò è avvenuto con il trasferimento delle competenze avocate, secondo un vorticoso meccanismo di deleghe, in direzione di apposite authorities, meccanismi di controllo e agenzie governative, resa possibile soprattutto dall’“alleanza” con le corporations (e con i corrispondenti gruppi organizzati per la difesa di interessi, o lobbies) in qualità di reali beneficiarie della alienazione di significative porzioni di sovranità statale. Per giunta, godendo di una personalità giuridica a responsabilità limitata (Inc.), queste organizzazioni si porrebbero “al di là” del controllo procedurale democratico, configurando una posizione sfavorevole per il cittadino, almeno dal punto di vista della protezione legislativa. In questo contesto, persino l’analisi delle politiche pubbliche secondo una classica ponderazione di costi/benefici addiviene problematica per il ricercatore sociale, specie davanti al rischio che il cittadino paghi il dazio di un gioco a somma zero. In ciò, avverte Lowi non senza una punta di ideologismo, si nasconderebbe il vero pericolo per il sistema nordamericano: un ritorno dello Stato ma nelle forme di una situazione instabile da “basso mediovevo” in cui vige un nuovo feudalesimo clientelare, dove i rapporti di fedeltà con i nuovi vassalli sono basati se non sul vincolo sacro dell’onore, nemmeno su quello codificato dalle norme del diritto, ma sull’interesse reciproco, sulla mercificazione del potere. Per questo Lowi parla di corporazioni che non operano secondo la teoria del libero mercato, ma secondo la volontà di governare il mercato, come ha notato Giuseppe Gangemi. Non senza amarezza, Lowi constata anche il ruolo della scienza politica ed economica in una sorta di “tradimento dei chierici”, cioè nella creazione e diffusione di miti “necessari a legittimare vasti programmi” e a “superare i dissensi intorno ad essi”[5]. In definitiva, il merito di Lowi sta nell’aver colto, molto prima che ciò venisse iscritto all’ordine del giorno dell’agenda istituzionale e del dibattito pubblico delle democrazie occidentali, la dicotomia problematica tra government e governance. Un dilemma, questo, che sembra riproporre i consueti schemi storiografici del conflitto “centro v. periferia” ma in quella situazione di potere “liquido”, come dicono i sociologi, che caratterizza la postmodernità e l’epoca della globalizzazione. Come ha evidenziato il compianto Nicola Matteucci, Lowi «individua la nascita di una seconda repubblica, in seguito all’affermazione dello Stato amministrativo, che avrebbe distrutto il liberalismo incarnato nell’antica Costituzione [americana]»[6]. Tuttavia, il limite politico ancor prima che teorico della proposta di Lowi, risiede nella costrizione della ricca tradizione costituzionale nordamericana in una riduttiva identificazione col solo government, alimentando a sua volta un volontaristico mito di “ritorno allo Statuto”. Quasi che il richiamo alla ortoprassi dell’intervento pubblico possa dire ancora qualcosa a noi, impotenti e smaliziati spettatori dei disastri dell’utopia welfarista liberal nel secolo appena trascorso. [1] T.J. Lowi, "American Business, Public Policy, Case-Studies, and Political Theory", in «World Politics», vol. XVI, n. 4, 1964, pp. 677-715. [2] M. Calise, “Introduzione” a T.J. Lowi, La scienza delle politiche, il Mulino, Bologna, 1999, p. XXX, che raccoglie i più importanti saggi dell’accademico statunitense. [3] Ivi, p. 230. [4] Cfr. ivi, cap. 5. [5] Ivi, p. 277. [6] N. Matteucci, Il liberalismo in un mondo in trasformazione, ora in http://www.societalibera.org/liberalierioggi/matteucci/1liberal4.htm
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