La qualità della vita degli Italiani di Emanuela Melchiorre L’incremento dei debiti e la contrazione dei risparmi delle famiglie italiane costituiscono indicatori importanti della loro condizione di disagio economico in questo periodo di economia quasi stagnante. Il disagio è dovuto, in primo luogo, alla perdita di potere di acquisto dei redditi, seguita all’introduzione dell’euro, che in molti casi ha quasi dimezzato il valore reale dei redditi degli Italiani. Allo stesso tempo, la politica monetaria della Banca centrale europea di alti tassi di interesse ha acuìto l’onere finanziario delle famiglie che hanno un mutuo immobiliare. Per poter mantenere il medesimo tenore di vita, le famiglie hanno reagito in primo luogo aumentando il credito al consumo, che costituisce per loro una maggiore voce di debito, ma, allo stesso tempo, un modo per disporre immediatamente di beni di consumo altrimenti non fruibili. In secondo luogo, e questo è un fenomeno di anni più recenti, hanno rinegoziato i propri mutui per allungarne la durata, al fine di mantenere inalterata la rata mensile. Ma questa seconda operazione costituisce anch’essa una maggiorazione del valore del debito. Tra mutui a tassi elevati e credito al consumo, quindi, aumentano i debiti degli Italiani che consumano più del loro reddito disponibile, mentre continuano ad assottigliarsi i loro risparmi. Soprattutto sembra che i risparmi dei giovani siano inesistenti. D’altra parte, i loro stipendi non sono adeguati ai nuovi prezzi lievitati sensibilmente per la spinta dell’inflazione. L'odierna riduzione del valore reale dei redditi da lavoro impone livelli qualitativi di vita sempre più bassi, a causa, infatti, dell’inflazione importata, dovuta all’alto prezzo dell’energia che, a dispetto di un euro forte, non accenna a ridursi. A questa si aggiunge l’inflazione endogena al sistema nazionale, dovuta al notevole aumento dei prezzi anche dei beni alimentari. Altro aspetto preoccupante è il tasso di disoccupazione che, secondo le rilevazioni dell’Istat, si attesta al 5,7% nel secondo trimestre del 2007, ben lontano dal livello del 3% circa proprio della disoccupazione frizionale, ovvero della piena occupazione, che può essere raggiunta solo grazie a un tasso di crescita dell’economia superiore al 3,5% del Pil e protratto per più anni, quindi maggiore dell’attuale 1% (stimato dalla Banca d’Italia per l’anno in corso nel suo bollettino economico di gennaio). La Finanziaria 2007, d’altra parte, ha avuto come effetto l’aumento della pressione fiscale e la riduzione del reddito prodotto e della crescita economica, che cominciava a mostrarsi timidamente nel 2006 e che è stata bruscamente soffocata. Le maggiori entrate, conseguenti all’inasprimento della stretta tributaria, non sono riuscite neppure a compensare le maggiori spese dell’attuale moribondo governo, né, a maggior ragione, a coprire parte del debito pregresso. La Finanziaria 2008, che non aveva riscosso alcun consenso a Strasburgo in occasione dell’Ecofin, ha innalzato ancora una volta la pressione fiscale, sia dal lato della produzione, sia dal lato del consumo. È questa la realtà con la quale gli Italiani devono fare i conti ogni giorno, sono queste le difficoltà e soprattutto le pessimistiche aspettative che essi nutrono per il futuro in un periodo di crescita molto lenta dell’economia. Ai giovani, anche quando escono dall’Università, si presenta la medesima possibilità di lavori precari e poco retribuiti dei loro coetanei meno qualificati, per lo più contratti a tempo determinato, presso call center, come segretari, ragionieri o come apprendisti, oppure, infine, per stage che prevedono orari lavorativi full time e retribuzioni non superiori ai 300-400 euro mensili. Tali soluzioni offrono scarsi margini di autonomia economica e non consentono né progetti, né ambizioni. Diventa impossibile iniziare un’esistenza indipendente dal nucleo familiare, magari in un appartamento in affitto. Ancor meno sembra possibile «metter su famiglia» o acquistare un’abitazione. Sembra, quindi, del tutto fuori luogo l’appellativo di «bamboccioni» usato dal ministro delle finanze Padoa Schioppa non molto tempo addietro. La risposta ad un simile generale stato di disagio sta diventando sempre più il disimpegno, l’antipolitica, la rinuncia alla realizzazione dei propri progetti. Si pospongono nel tempo le scelte importanti della vita (una famiglia, una casa…). I più intraprendenti scelgono l’espatrio volontario verso paesi, come ad esempio gli Stati Uniti, che offrono maggiori possibilità professionali e maggiore attenzione all’innovazione e alla ricerca. Le difficoltà economiche di chi resta invece non giovano alla serenità familiare. Molte famiglie, messe a dura prova da una esistenza economicamente difficile, finiscono col dividersi. Non stupisce, perciò, che sia aumentato il numero delle convivenze mentre, con il concorso di altre cause, come la divisione dei beni in caso di separazione, sono in calo i matrimoni. La precarietà economica rischia sempre più di tramutarsi in precarietà affettiva e familiare. La politica economica del binomio Prodi-Padoa Schioppa sta producendo dunque, cattivi frutti: crescita insostenibile della pressione fiscale (si calcola sia arrivata nel complesso al 46% del Pil), aumento della spesa corrente, riduzione degli investimenti, aumento dei prezzi, riduzione dei consumi. Il risultato complessivo, in una parola, è la «stagflazione». I rimedi proposti ad alcuni dei mali attuali sono, d’altra parte, semplicemente demagogici e sconcertano lo studioso e l’economista. Ad esempio, l’aumento dei prezzi non potrà essere contrastato dalla neo istituzione che è stata ideata a questo scopo, l’Autority sui prezzi. È notorio che i prezzi crescono, infatti, a causa della riduzione dell’offerta, del minore o nullo aumento della produttività e dell’inflazione importata, o per la combinazione delle tre cause. Se non si agisce sulle cause dell’inflazione, non si frena l’aumento prezzi. Una Autority che sia chiamata a vigilare sull’andamento dei prezzi, dimenticando che alla rilevazione provvede già l’Istat, non può non fare altro che lanciare l’allarme ogni volta che questi raggiungano una soglia massima, ma sicuramente non possiede alcuno strumento per agire positivamente sul mercato. È, in buona sostanza, un inutile «carrozzone», un ulteriore dispendio di risorse pubbliche, che non produrrà alcun effetto se non quello dell’incremento della spesa pubblica corrente. Al contrario, la riduzione significativa dell’imposizione fiscale avvierebbe il processo inverso – quello dell’aumento della produzione, degli investimenti e della produttività del lavoro – e innescherebbe, in tal modo, il circolo virtuoso della crescita economica, aumentando il reddito e, quindi, la base sulla quale vengono calcolate le imposte. L’effetto ultimo sarebbe proprio quello di garantire maggiori entrate tributarie abbassando la percentuale di imposizione fiscale. Al tempo stesso, perseguirebbe l’obbiettivo dell’aumento dell’occupazione e dell’adeguamento degli stipendi al costo della vita.
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