Il
precariato giovanile: piaga della società italiana
di Emanuela
Melchiorre
Per l’imminente consultazione popolare i partiti sono
intenti a preparare le liste elettorali e i programmi per il futuro governo
da presentare ai cittadini che manifesteranno le loro preferenze con il
voto. Oggi più che mai è auspicabile che la società italiana crei
possibilità di lavoro stabile per tutti i giovani che abbiano terminato i
loro studi. Questo sarà un tema ineludibile della prossima campagna
elettorale. E sarà possibile risolvere in tempi ragionevoli, che si
auspicano brevi, un tema così complesso solamente ricorrendo a politiche di
sviluppo, di ammodernamento e di crescita, che agiscano sinergicamente
nell’ambito scolastico e nell’ambito produttivo e occupazionale.
Certamente, compito della scuola dovrebbe essere non solo
quello di fornire sapere e cultura, ma anche quello di scoprire chi ha
inclinazione per l’arte, per la logica o la filosofia, per la politica, per
la matematica e per le altre discipline. In altre parole, la scuola dovrebbe
scoprire le naturali attitudini e potenzialità dei giovani studenti. Negli
Stati Uniti, la scuola da la possibilità di scegliere tra un numero molto
elevato di insegnamenti che lo studente può seguire a mano a mano che scopre
le sue naturali predisposizioni. Fin dalle scuole medie, il giovane
americano è aiutato a fare una programmazione di studi e durante l’anno può
cambiare materia fino a trovare quella più confacente alle sue naturali
vocazioni. Così facendo i giovani possono ottenere più facilmente una buona
preparazione e la stessa scuola diventa per loro una palestra in cui
allenarsi per affrontare meglio il mondo del lavoro.
Oltre alle politiche peculiari della scuola e
dell’università per preparare i giovani ad affrontare il mondo del lavoro, è
necessario porre in atto una politica della piena occupazione, che si può
conseguire aumentando la produzione del Pil nella misura di almeno il 3 –
3,5% in media l’anno e per molti anni. È questo l’aumento indispensabile per
portare la disoccupazione al livello c.d. “frizionale”, ovvero quella
disoccupazione dovuta agli attriti del sistema economico e che si può
indicare sul 3% circa delle forze di lavoro. Disoccupazione frizionale non
significa però disoccupazione permanente, ma temporanea mancanza di lavoro,
di pochi giorni o di poche settimane, il tempo necessario per trovare una
nuova occupazione. Con il pieno impiego vengono ad essere quasi superflui i
meccanismi detti “ammortizzatori sociali”. In senso moderno, disoccupazione
frizionale significa però anche la possibilità concreta di trovare un lavoro
confacente alle aspirazioni dei giovani e non un posto a tempo indeterminato
qualsiasi.
Il percorso della crescita può essere perseguito solo
passando attraverso le politiche di basse tasse e di incentivi
all’investimento e all’innovazione, che comportano un aumento della
produttività del lavoro. Pertanto, è necessario moltiplicare le occasioni di
lavoro: la differenza tra mobilità e precariato consiste, infatti, nel
numero di opportunità che un lavoratore ha di fronte al momento di scegliere
una diversa occupazione e non quella del datore di lavoro di licenziarlo
arbitrariamente.
Secondo le ultime stime del Censis, appena il 36,1% dei
nuovi ingressi sul mercato del lavoro viene assunto con un contratto a tempo
indeterminato. Questa tipologia contrattuale è quindi un privilegio per
pochi, appena un terzo circa dei nuovi assunti infatti può usufruirne.
Inoltre, sempre secondo il Censis nel 2006, su 902 mila lavoratori che si
sono ritrovati senza occupazione, perché l’hanno persa, o perché si sono
ritirati dal lavoro, una quota rilevante è costituita da popolazione
giovanile: il 38,4% (che rappresenta più di 346 mila persone) è di età
inferiore ai 34 anni e il 22,2% (più di 200 mila persone) sono giovani tra i
35 e i 44 anni.
Negli ultimi due anni il Censis registra un leggero
incremento della quota di lavoratori a termine tra i 20 e 34 anni, che è
riuscita nel giro di un anno ad accedere al lavoro a tempo indeterminato che
però rimane sempre a livelli molto bassi. Per quanto riguarda i lavoratori
temporanei, infatti, nel 2006 tale quota è stata di appena del 17,7%. La
maggior parte dei lavoratori flessibili, invece, resta immobile nella
propria condizione, quando non rischia di perdere il posto di lavoro, evento
che, sempre secondo il rapporto Censis, nel
2006 ha interessato il
12,4% dei giovani con contratto a termine e il 12% dei collaboratori, a
progetto o occasionali.
I lavoro a termine è diffuso in tutta l’Europa, sia nei
paesi economicamente avanzati, sia in quelli arretrati. La maggiore
incidenza del lavoro a termine si rileva, secondo l’Istat, nella Spagna con
oltre il 40% sul totale degli occupati, seguita dalla Polonia con oltre il
35%. Percentuali superiori a quelle italiane riguardano molti paesi con
economie tra le più avanzate, come
la Svezia, la Germania, la Svizzera
e la Francia. Tra i paesi con minore incidenza troviamo la Romania, la Gran
Bretagna, l’Ungheria, la Grecia e l’Austria. Considerare i soli contratti a
termine però esclude tutte le altre forme di precariato, come il contratto
di lavoro a progetto, quello occasionale e i vari contratti di consulenza
che mascherano, invece, un rapporto di dipendenza. È evidente quindi che i
dati dell’Istat sottostimano l’incidenza di tutto il lavoro in qualche modo
precario sul totale del lavoro a tempo indeterminato.
Il senso di insicurezza e di insoddisfazione delle giovani
generazioni si amplifica. Sicuramente il lavoro in qualche modo precario
rappresenta una forte minaccia al bisogno di giustizia sociale, che si
ripresenta con forza nello scenario della storia attuale, non solo in Italia
ma anche nel mondo civile e occidentale in generale. Un trend così
evidentemente sfavorevole per la popolazione in cerca di lavoro, e per
quella giovanile in particolar modo, in un’epoca caratterizzata da un
livello tecnologico sempre più elevato, non può non sollevare la domanda
sulla opportunità, per una società nel suo complesso, di non far partecipi
dei benefici derivanti da una crescente produttività anche i lavoratori e
specialmente quelli giovani. Una società che disillude le nuove leve di
lavoro non ha possibilità di fare grandi balzi in avanti e corre il rischio
in tempi non molto lunghi di ripiegare su se stessa. vai indietro |