Jürgen Habermas. Il (mite?) agnosticismo di un laico “dialogante”

di Paolo Fornari

 

Pochi giorni fa Jürgen Habermas è tornato a parlare di fede e ragione, in occasione del convegno organizzato dalla Società Italiana di Filosofia Politica. Nel suo intervento, di cui Repubblica ha offerto un’anticipazione (Cfr. l’edizione del 12 settembre), il filosofo si è interrogato su quale possa essere il ruolo delle civiltà tradizionali nella postmodernità. Di fronte ad una società globale in pieno fermento religioso, dice Habermas, la teoria “classica” della secolarizzazione – che descrive la modernizzazione nei termini di una progressiva e inesorabile laicizzazione delle coscienze – sembra essere radicalmente smentita, al punto da indurre diversi sociologi “revisionisti” ad accusarla di eurocentrismo. Ma il problema, osserva Habermas, deve essere re-impostato: non si tratta più tanto di sapere se la religione abbia perso o meno rilevanza sulla scena pubblica, quanto di confrontarsi con la presenza vitale e fattuale delle religioni in espansione e domandarsi sotto quali condizioni esse possano trovare cittadinanza nella cultura globale moderna.

Il classico binomio secolarizzazione/tradizione sembra non offrire più una comprensione adeguata della situazione contemporanea e la questione deve essere affrontata da una nuova prospettiva metodologica. Ma, in sé, la teoria della secolarizzazione non è ancora stata falsificata. In realtà, sostiene il filosofo di Düsseldorf, il crescente bisogno religioso nella società mondiale è adeguatamente spiegato dai «più elevati tassi di natalità dei paesi in via di sviluppo, più poveri». In altri termini, la rinnovata vitalità religiosa è un fenomeno che interessa solo le fasce deboli della popolazione mondiale, quelle che, vivendo una situazione di profonda «insicurezza esistenziale», non possono che ricorrere a dispensatori di certezze privati; il fatto poi che i credenti siano la maggioranza non ha in sé alcun valore epistemico, dato che è proprio delle culture non-sviluppate essere feconde. L’idea che la modernizzazione si attui nella secolarizzazione delle coscienze, rimane dunque ancora valida. Il problema è piuttosto come intendere tale secolarizzazione.

In effetti, secondo Habermas, le comunità religiose, a prescindere dal loro peso numerico, possono ancora rivendicare un “posto” nelle società moderne, e contribuire alla formazione dell’opinione e della volontà pubbliche, anche su «questioni controverse», come l’eutanasia, l’aborto o la fecondazione assistita. È vero che la rete globale tende ad imporre ovunque i propri modelli omologanti (tecnocratici, burocratici e capitalistici), ma è altrettanto vero che la recezione di questi stimoli avviene sempre in un rapporto di tensione dialettica con le culture locali. E ciò perché, come osserva Eisenstadt, la società mondiale multi-culturale costituisce una forma neutra, «egualmente svincolata da tutte le civiltà tradizionali», una sovrastruttura comune che le diverse civiltà possono plasmare dall’interno, mettendo in campo la propria interpretazione della modernità. E nel confronto fra le interpretazioni, le singole culture possono contribuire a dare forma alla sovrastruttura stessa. In questo modo, un sistema impersonale e omologante è suscettibile di trasformarsi in una sensibile «cassa di risonanza», un’arena globale, in cui le singole civiltà possono far sentire la propria voce.

Perché il confronto abbia successo è tuttavia necessario che si rispettino alcuni «presupposti cognitivi». Occorre cioè che tutte le culture, in questa arena, parlino il linguaggio della «ragione laica», usando argomenti capaci di convincere chiunque, a prescindere dalle propensioni metafisiche o affiliazioni religiose. A dover compiere questo necessario «auto-distanziamento riflessivo» non sono solo i cittadini credenti, ma anche coloro che aderiscono a concezioni secolari dell’esistenza, i quali sono chiamati a mettere da parte le proprie riserve anti-metafisiche e anti-religiose. Solo così può sorgere un orizzonte di discorso ideologicamente neutro – e dunque laico, più che laicista – di reciproca comprensione. Ciascun interlocutore deve saper distinguere quelle concezioni legate a specifiche concezioni del mondo, dalle credenze minime (thin) generalmente accettabili. In questo modo si potrà giungere alla definizione ragionevole di valori condivisi, pur senza dover essere necessariamente d’accordo sulle questioni più impegnative.

Ma è proprio questa retorica minimalista a fare problema. Essa presuppone infatti che gli interlocutori abbiano già una idea di ciò che significa “ragionevole”, altrimenti nessun accordo sarebbe possibile. Ora, ciò che rende incommensurabili le diverse visioni del mondo, è proprio il fatto di fondarsi su una diversa concezione della ragionevolezza. La sola storia delle civiltà occidentale ci ha posto di fronte a diverse concezioni di ragione: c’è il nous aristotelico, capace di assurgere ai principi primi dell’essere, ma c‘e anche il cogito cartesiano; c’è la ragione aperta al trascendente di un S. Tommaso, ma c’è anche la ragione illuministica che vorrebbe prendere le misure alla Rivelazione. A che tipo di ragione si riferisce Habermas? Tommaso d’Aquino potrebbe, a buon diritto, sostenere che le sue vie siano argomenti perfettamente adeguati al criterio della ragionevolezza “laica”; ma Habermas non annovererebbe certo le sue cinque “vie” tra le «credenze minime». Per l’Aquinate, è proprio della ragione rimandare a ciò che la fonda, mentre rifiutando tale fondamento, negherebbe se stessa. Al contrario, per il pensiero laicista, è proprio della ragione non fondarsi su altro che su e stessa. L’uno, scoprendosi contingente, riconosce nell’obbedienza all’ordine oggettivo dell’essere la propria perfezione; l’altro, non curandosi delle proprie radici ontologiche, fa del proprio limite il solo vero assoluto. In entrambi i casi siamo di fronte ad un Assoluto, la cui individuazione è il risultato di una scelta: per Dio o per la creatura. Tertium non datur.

Compiere, a questo livello, un «autodistanziamento» critico, significherebbe, per una ragione orientata al trascendente, negare se stessa, per il pensiero laico, la conversio ad Verum. La grande arena dello scambio laico, si risolverebbe così in un ritrovo di schizofrenici, in cui ognuno dovrebbe sostenere in ambito pubblico ciò che privatamente ritiene falso. Il «mite agnosticismo» habermasiano lungi dal consentire un dialogo autentico, si rivela essere un luogo di esclusione, un ambito precluso a chiunque voglia parlare con franchezza. Quando, infatti, ci si trova a discutere di aborto o di eutanasia, la decisione iniziale per l’ordine dell’essere o contro di esso è determinante. La soluzione di tali questioni presuppone infatti che si stabilisca preventivamente se la misura della giustizia debba trovarsi in ciò che la ragione decide essere rilevante o piuttosto nell’ordine oggettivo della realtà.

Habermas vorrebbe mettere la scelta fra parentesi, come irrilevante fatto privato, riservando all’ambito pubblico un uso “neutro” della ragione. E qui sta l’inghippo. La ragione può rimanere neutra solo finché si discetta di questioni di logica formale, o di affermazioni ovvie, del tipo “è giusto essere buoni”, o “si deve fare il bene”. Quando però si debba stabilire cosa significhi essere buoni e cosa sia bene, le diverse concezioni non potrebbero rimanere neutre. O il bene si fonda su un struttura oggettiva, oppure è la ragione stessa a pronunciarsi – magari affidandosi a procedure democratiche – su cosa esso sia. Il vero dialogo è possibile solamente quando gli interlocutori mettono in campo tutte le risorse della propria ragione, quando cioè propongono la “propria” verità nella sua interezza. Il «mite agnosticismo» habermasiano funziona solo per questioni di scarsa rilevanza. Quando il dibattito va a toccare i fondamenti stessi dell’esistere – quando cioè si tratta di «questioni controverse» –, l’espressione non ha più alcun senso: o non si è agnostici, oppure lo si è, ma in maniera tutt’altro che mite.

Rimane ancora una questione da trattare. Si è detto infatti che è la scelta iniziale a determinare ogni successivo uso della ragione. Ne possono derivare due conclusioni. O questa scelta è esclusa dalla sfera del razionale – come vuole Habermas – oppure deve poter essere essa stessa più o meno “razionale”. La prima conclusione può dare adito, a sua volta,  a due conseguenze: l’affermazione di una strutturale incommensurabilità fra le diverse visioni del mondo, oppure il «mite agnosticismo» habermasiano che, in definitiva, esclude la possibilità di qualsiasi comunicazione rilevante. Diverso invece, è dire che la ragione è già implicata nella scelta per o contro l’ordine dell’essere. Perché allora la scelta non è più un mero accidente che inspiegabilmente incrocia l’esistenza di singoli individui, e in definitiva neanche una “scelta” meramente arbitraria, bensì l’affermazione di un ordine oggettivo, che la ragione, se vuole essere fedele a se stessa, non può fare a meno di riconoscere. Lasciarsi istruire da esso o rifiutarlo non è affatto indifferente, poiché “scegliere” male significa tradire la ragione, il che è equivale a tradire se stessi.

È a questo livello che si può dare un vero confronto culturale, a condizione che le culture si presentino per ciò che sono, senza imporre agli altri e a sé stessi una “mitezza” fittizia e, in definitiva, violenta.

 

 


                                                              

vai indietro