Senza
perdere la speranza: la lezione di Giovanni Paolo I
di Angelo Costa
Stando tra la gente si avverte forte in vista delle prossime elezioni
politiche un senso di sfiducia e di sconforto, è preoccupante come la
politica sembri aver perso la sua forza catalizzatrice, il disinteresse è
diffuso e generale, particolarmente tra la gente del Sud, dimenticata da
governi distratti da pacs, gay, attacchi continui alla Chiesa e cose simili,
e lasciata in balia del degrado sociale e del malaffare. Il motivo
conduttore della nostra politica nazionale sembra essere stato in questi
ultimi anni quello che Luca Volontè ha definito: Furore giacobino
aggiungendo che
«l’attacco
a testa bassa contro la Chiesa Cattolica è senza precedenti, una vergogna senza precedenti, una
violazione del principio di autonomia e laicità senza precedenti».
Ma
alla gente purtroppo queste cose non interessano: in Italia oggi sembra che
si sia persa la speranza, e questo, particolarmente noi cattolici,
non possiamo permetterlo, ed anche queste elezioni devono essere
un’occasione per ridare speranza.
La speranza in un’altra Italia,
nell’Italia degli italiani, di quella seria, di quella che ha difficoltà ad
arrivare alla fine del mese, di quella che tiene all’educazione dei figli,
di quella che tiene al valore della famiglia fondata sul matrimonio, di
quell’Italia che non è mafiosa, imbrogliona e affarista, di quell’Italia che
ha scelto la moralità del fare, di quell’Italia che ha sofferto e soffre
sotto i rifiuti in Campania, di quell’Italia che vive quotidianamente il
problema della sicurezza sulla propria pelle, di quell’Italia vittima della
malasanità calabrese, ebbene a quell’Italia, a questa Italia, i cattolici
questa volta devono dare una nuova speranza. A
quell’Italia che soffre perchè non più rappresentata da troppi anni, a
quell’Italia laboriosa, attenta, i cattolici devono dare una risposta forte
e decisa. Occorre destare gli animi, occorre dire ai molti che se lo
aspettano:
«Noi
ci siamo».
L’apostolo Pietro scrive ai cristiani e li esorta a dare ragione della loro
speranza:
«...
pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza
che è in voi
» (1Pt 3,15).
Luigi Alici, ordinario di Filosofia morale presso l’Università di Macerata,
disse che nel nostro tempo si vive:
«Una
diffusa “afasia escatologica”, che sembra mortificare l’orizzonte salvifico
della speranza, riducendo quest’ultima ad una semplice virtù
cardinale; il risultato è un cristianesimo addomesticato e indolore che
(giustamente) non tocca il cuore dei giovani, non contagia, non appassiona,
non mette in cammino. Non si tratta di aspetti diversi: sperare significa
riconoscere che il cielo e la terra si toccano, e il cielo è credibile solo
quando illumina, promuove e riscatta la terra, non quando la demonizza, la
dimentica o l’abbandona a se stessa».
E’ vero, condivido ed è per questo che bisogna reagire. Ho
avuto sin da piccolo una predilezione per Papa Giovanni Paolo I, l’ho sempre
visto come il Papa delle cose semplici, un uomo di Dio che trasmetteva
tenerezza in ogni sua parola, un uomo che parlava al cuore dei semplici come
solo i grandi sanno fare, un uomo della speranza; ed oggi, mi sembra
opportuno riprenderlo a modello per trovare nelle sue parole un invito a
sperare ed un modello di comportamento. In
un’udienza generale di Mercoledì 20 settembre 1978 disse:
«Non tutti condividono questa mia simpatia per la
speranza. Nietzsche - per esempio - la chiama «virtù dei deboli»; essa
farebbe del cristiano un inutile, un separato, un rassegnato, un estraneo al
progresso del mondo. Altri parlano di «alienazione», che distoglierebbe i
cristiani dalla lotta per la promozione umana. Ma “il messaggio cristiano -
ha detto il Concilio - lungi dal distogliere gli uomini dal compito di
edificare il mondo... li impegna piuttosto a tutto ciò con un obbligo ancora
più stringente”» .
Sperare oggi vuol dire far tesoro di quanto i nostri padri ci hanno
trasmesso, questo laicismo giacobino ci ha spiegato che i
nostri padri non valgono nulla, che è il nostro presente a valere, e per il
futuro... si vedrà. Commuovente, invece, quanto disse Giovanni Paolo I il 27
settembre 1978 dopo aver recitato una preghiera:
«Me l'ha insegnata la mamma. La recito più volte al giorno
anche adesso».
Me l'ha insegnata la mamma:
il coraggio di un uomo di non tradire mai le proprie origini, anzi di farne
tesoro in ogni attimo della propria esistenza: la speranza nasce
anche dalla solidità del proprio passato, l’unico modo per guardare con
fiducia al futuro. Mi è
in questi giorni capitato tra le mani un ritaglio di giornale, vi si legge:
«E’
interessante notare come la speranza cristiana, che guarda verso il
futuro, è profondamente radicata nel presente, ed è possibile perché fa
memoria del passato: è fondata sulla memoria dell’incarnazione, morte e
risurrezione di Cristo. Sarà la certezza della risurrezione che ci farà
vedere le possibilità di vita quando tutto ciò che ci circonda parla di
morte». La
nostra, quella che andremo a proporre, deve essere una speranza che fa
memoria.
Franco Garelli su
La Stampa
qualche tempo fa scrisse:
«i
cattolici italiani prestino altrettanta importanza a campi di impegno forse
meno gratificanti umanamente ma non per questo meno essenziali per ridare
speranza alla società italiana: quelli dell'impegno politico,
dell'assunzione diretta di responsabilità nella scuola, nella pubblica
amministrazione, nella sanità, nella ricerca, nella finanza, nell'economia,
nelle imprese, nelle professioni ecc. Ambiti centrali per scrivere la storia
e rendere più civile e moderna la nazione».
A questo invito oggi i cattolici devono rispondere.
La speranza nasce dalla forza della fede,
quella fede che non si impone, ma si trasmette. Quanta tenerezza in queste
parole:
«Mia
madre mi diceva quand'ero grandetto – diceva il Papa - da piccolo sei stato
molto ammalato: ho dovuto portarti da un medico all'altro e vegliare notti
intere; mi credi? Come avrei potuto dire: mamma non ti credo? Ma sì che
credo, credo a quello che mi dici, ma credo specialmente a te. E così è
nella fede. Non si tratta solo di credere alle cose che Dio ha rivelato ma a
Lui, che merita la nostra fede, che ci ha tanto amato e tanto ha fatto per
amore nostro».
(in udienza generale Mercoledì 13 settembre 1978)
La speranza nasce dalla consapevolezza di essere amati: è questo quanto bisogna trasmettere, ed una campagna
elettorale ed un mandato parlamentare possono essere un’ottima occasione:
«Dobbiamo
sentirci piccoli davanti a Dio. Quando io dico: Signore io credo; non mi
vergogno di sentirmi come un bambino davanti alla mamma; si crede alla
mamma; io credo al Signore, a quello che Egli mi ha rivelato. I comandamenti
sono un po' più difficili, qualche volta tanto difficili da osservare; ma
Dio ce li ha dati non per capriccio, non per suo interesse, bensì unicamente
per interesse nostro».
(in udienza generale Mercoledì 6 settembre 1978) Ed ancora:
«Anche
noi che siamo qui, abbiamo gli stessi sentimenti; noi siamo oggetti da parte
di Dio di un amore intramontabile. Sappiamo: ha sempre gli occhi aperti su
di noi, anche quando sembra ci sia notte. E' papà; più ancora è madre. Non
vuol farci del male; vuol farci solo del bene, a tutti. I figlioli, se per
caso sono malati, hanno un titolo di più per essere amati dalla mamma. E
anche noi se per caso siamo malati di cattiveria, fuori di strada, abbiamo
un titolo di più per essere amati dal Signore».
(dall’ Angelus, 10 settembre 1978)
La speranza è quel supplemento d’anima,
come amava chiamarla Giovanni Paolo I, che i cattolici impegnati in politica
devono offrire, in questo sforzo comune di responsabilizzazione e di
risposta ai problemi lancinanti del momento:
«questo si attende oggi il mondo – diceva il Papa già nel
1978 - esso sa bene che la sublime perfezione a cui è pervenuto con le sue
ricerche e con le sue tecniche ha raggiunto un crinale oltre cui c'è la
vertigine dell'abisso; la tentazione di sostituirsi a Dio con l'autonoma
decisione che prescinde dalle leggi morali, porta l'uomo moderno al rischio
di ridurre la terra a un deserto, la persona a un automa, la convivenza
fraterna a una collettivizzazione pianificata, introducendo non di rado la
morte là dove invece Dio vuole la vita».
(Radiomessaggio «Urbi et Orbi» 27 agosto 1978) Mi
piace concludere con le parole di Kierkegaard:
«Ciò di cui il nostro tempo ha bisogno è l’eternità». Che
i cattolici possano essere segno, già da queste prossime elezioni, l’Italia
ha sete di valori, di serenità, di futuro... di eternità! Da questo nascerà
un buon governo che avrà come centro la persona umana nella sua interezza ed
in tutta la sua affascinante complessità. vai indietro |