Il governo Prodi è caduto in Parlamento. Non è caduto
perché travolto da una forza maggiore dell’opposizione. È caduto per
decomposizione della maggioranza. In un certo senso il governo inizia a morire
nel momento in cui Veltroni e Berlusconi si parlano e cercano di delineare un
sistema di regole, scritte e non scritte, che consentano un funzionamento
“normale” della democrazia italiana. Nel momento, però, in cui viene meno la
pregiudiziale antiberlusconiana, cioè l’identificazione surrettizia di
berlusconismo e fascismo, viene meno anche il collante della coalizione di
governo ed emergono tutte le sue esplosive contraddizioni interne. In altre
parole, la coalizione di governo, per resistere, ha bisogno di una sorta di
coazione esterna, di un clima di emergenza.
Veltroni pensava, giustamente, che il paese avesse bisogno di uscire da questo
clima di bipolarismo barbaro, che usa un linguaggio da guerra civile ed in cui
la competizione politica sui programmi e sui valori è sostituita dal dileggio
dell’avversario e dalla sua demonizzazione. La coalizione di centrosinistra si
rivela però incapace di realizzare questa transizione. È davanti alla
esplosione della coalizione che Veltroni si vede costretto a correre da solo
e, di conseguenza, a costruire un sistema elettorale che gli consenta di
correre da solo, capovolgendo la posizione tradizionale dei Ds.
Esplode la coalizione di centrosinistra, finisce l’Ulivo. Non ci si faccia
ingannare dalle apparenze. Se non fossero stati i centristi a far cadere il
governo lo avrebbe fatto di qui a poco la sinistra. La ragione è semplice:
questo centro e questa sinistra non possono governare insieme, sono
reciprocamente incompatibili. Non è solo il fallimento di un governo e di una
coalizione. È il fallimento di una cultura politica, la cultura politica
azionista e dossettiana di cui Prodi è stato la espressione politica.
Non è riuscito l’incontro dei cattolici e dei comunisti. Gli azionisti ed i
dossettiani erano convinti che nella Resistenza italiana si fosse realizzato
un incontro storico dei cattolici, dei comunisti e dei liberali che generava
una forma culturale e politica superiore sia al comunismo che alle democrazie
occidentali. Questa sintesi superiore imponeva una revisione radicale ed anche
una abiura parziale del comunismo tradizionale, del liberalismo tradizionale e
del cattolicesimo tradizionale.
Avrebbero potuto incontrarsi fra loro solo un nuovo comunismo, un nuovo
liberalismo ed un nuovo cattolicesimo. Da questo presupposto discende, fra
l’altro, la interpretazione dossettiana del Concilio ecumenico Vaticano II
come rottura assoluta con il passato cattolicesimo, bollato in blocco come
integrista. La novità politica avrebbe avuto bisogno, per realizzarsi
compiutamente, di una riforma religiosa e teologica. È in questa luce che si
comprendono anche alcune sorprendenti affermazioni degli onorevoli Bindi e
Castagnetti secondo i quali i vescovi italiani sarebbero teologicamente in
ritardo rispetto alla novità non solo politica ma anche religiosa dell’Ulivo.
Questa idea azionista e dossettiana conquista negli anni post-conciliari
quella che Del Noce chiamava la Repubblica della Cultura. Dopo la caduta del
muro di Berlino azionismo e dossettismo (il dossettismo è la variante
cattolica dell’azionismo) giungono anche alla conquista del potere politico
con l’Ulivo e con l’Unione. Il Partito democratico avrebbe dovuto essere il
frutto maturo di questa lunga gestazione politica.
Era necessario che il dossettismo godesse il suo momento di successo politico
perché solo in questo modo era possibile arrivare alla dimostrazione evidente
del suo fallimento. Così è stato. Diceva Del Noce che comunismo e
cattolicesimo sono essenze irriducibili, non mediabili. E così infatti è
stato.
I comunisti sono rimasti fuori dal Partito democratico, hanno rifiutato di
lasciarsi riassorbire nella sintesi prodiana. Anche la maggioranza dei
cattolici è rimasta fuori e, comunque, la Chiesa italiana si è rifiutata di
attribuire ai cattolici dossettiani nel Partito democratico quel ruolo di sua
rappresentanza laica che essi si erano attribuiti. La grande sintesi che
avrebbe dovuto abbracciare tutti gli italiani ricostruendo l’unità morale
della nazione finisce con l’avere il consenso, nel migliore dei casi, di un
po’ meno di un terzo dell’elettorato.
In effetti dopo il crollo del comunismo diventa difficile proporre una sintesi
di comunismo ed economia di mercato. Si pone, se mai, il problema di come
coniugare libertà e solidarietà, ma questa è altra cosa, che appartiene, se
mai, all’ambito della dottrina sociale cristiana e del pensiero liberale.
Il comunismo, a livello mondiale, si è dissolto davanti ad una opposizione
intellettuale, religiosa e morale, non è stato riassorbito in una sintesi di
ordine superiore che ne conservi alcuni elementi. Dossettismo ed azionismo
sono disarmati davanti all’emergere di una globalizzazione che ridimensiona il
ruolo dello stato ed il potere della politica ed impone di ripensare in modo
del tutto nuovo il rapporto fra stato e società e fra libertà e solidarietà.
Egualmente disarmato è il dossettismo davanti all’emergere delle questioni
della bioetica, in una fase storica in cui l’uomo acquisisce capacità inaudite
di manipolare se stesso. Qui si delinea per i cattolici un nucleo di valori
non negoziabili che resiste al primato assoluto della mediazione politica che
è invece proprio della ideologia dossettiana. Per giungere all’incontro
cattolici e comunisti devono rinunciare, ciascuno per suo conto, al proprio
orizzonte di riferimenti ideali. Si incontrano dunque sul terreno di un
pragmatismo assoluto e di un primato della politica che si stacca da ogni
riferimento vincolante di valori che la preceda.
Cessano, in tal modo, di essere popolari. Rinunciamo a
mostrare (ma il lettore vi arriva facilmente da solo) in che modo le singole
tappe del fallimento del governo Prodi si lasciano ricondurre alla
insufficienza di questi suoi presupposti ideali. Dalla presa d’atto di questo
fallimento ideale bisogna comunque partire per ripensare fuori da schemi
consumati il ruolo dei cattolici, dei liberali ed anche della sinistra
riformista nel futuro della democrazia italiana.