La nostra filosofia

 

Dario Antiseri, Cattolici a difesa del mercato

Rocco Buttiglione, Il ruolo dei cattolici-liberali nel quadro politico attuale  

 

 
 
Cattolici a difesa del mercato *

di Dario Antiseri

Premessa

«Sono convinto che, se la frattura tra il vero liberalismo e le convinzioni religiose non sarà sanata, non ci sarà alcuna speranza per la rinascita delle forze liberali. Ci sono oggi in Europa molti segnali che indicano tale riconciliazione più vicina di quanto non lo sia stata per lungo tempo, e che mostrano come molte persone vedano in essa la sola speranza per preservare gli ideali della civiltà occidentale». Questo affermò Friedrich A. von Hayek, il 1 aprile 1947, nella Relazione del convegno in cui venne fondata la Mont Pélèrin Society.

Idea, questa di Hayek, valida e urgente oggi, così come valida e urgente era sessant’anni fa e che, pur in contesti storici differenti, trova un’articolazione teorica in un’imponente tradizione di pensiero: la tradizione del cattolicesimo liberale che annovera tra i suoi esponenti figure come quelle di A. de Tocqueville, F. Bastiat, A. Rosmini; e poi, di W. Röpke, K. Adenauer, L. Einaudi, L. Sturzo; e, ai nostri giorni, di M. Novak, J-Y Naudet, J. Garello e A. Tosato.

Sono trascorsi dieci anni dalla prima edizione di Cattolici a difesa del mercato. Questa nuova edizione esce arricchita con la presentazione dei contributi di altri esponenti del cattolicesimo liberale: Lord Acton per il passato; Leonard Liggio, Alejandro Chafuen, Philippe Nemo e Lucas Beltrán per i nostri giorni. Tutto questo nella persuasione, per dirla con Wilhelm Röpke, che “il liberalismo non è, nella sua essenza, un abbandono del cristianesimo, bensì il suo legittimo figlio spirituale”.

Roma, settembre 2005

Flavio Felice

  
Introduzione

 «Il socialismo è la confisca, in un grado più o meno grande, della libertà umana». A. de Tocqueville

«Se su di un confine non passano le merci, attraverso di esso passeranno i cannoni». F. Bastiat

«Il potere tende a corrompere, e il potere assoluto corrompe in modo assoluto». J. Acton

«La proprietà costituisce una sfera intorno alla persona, di cui la persona è il centro; nella qual sfera niun altro può entrare». A. Rosmini

«Antichità classica e Cristianesimo, entrambi sono i veri antenati del liberalismo». W. Röpke

«La media proprietà è una sicurezza essenziale degli Stati democratici». K. Adenauer

«Fa d’uopo dire quanto sarebbe vantaggioso che nei seminari e nei licei si inculcasse l’idea che non esiste nessuna maniera, né semplice né misteriosa, di fare denaro a palate». L. Einaudi

«Lo Stato è per definizione inabile a gestire una semplice bottega di ciabattino». L. Sturzo

«Nell’intimo cuore del sistema capitalista vi è la fiducia nella capacità creativa dell’uomo. Come affermano i teologi cattolici, e come è provato dall’esperienza, questa fiducia è ben riposta». M. Novak

«La ricchezza, nell’Antico Testamento, è data affinché venga usata in modo produttivo e saggio, e questo argomento è mantenuto in tutto il Nuovo Testamento». L. Liggio

«Se, come è avvenuto negli ultimi vent’anni, la Chiesa alla ricerca della verità ha potuto dialogare coi pensatori influenzati da Marx, allora forse è maturo il tempo perché si apra il dialogo con il liberalismo classico». A. Chafuen

«Il socialismo reale commette [...] l’errore, ereditato dal marxismo, che consiste nel cercare di comprendere l’uomo unicamente nella sua dimensione economica». J.-Y. Naudet

«È coniugando liberalismo e cattolicesimo che l’Occidente ritrova e ritroverà il suo equilibrio intellettuale, morale e spirituale». J. Garello

«Il contributo della Bibbia alla tradizione politica occidentale, così come essa si è venuta delineando, consiste essenzialmente nella “messa sotto tensione” del tempo della storia da una prospettiva escatologica e nel discredito del potere temporale». P. Nemo

«In questi ultimi anni emerge un atteggiamento, per così dire, euristico, volto ad una rivalutazione etica del capitalismo».  A. Tosato

«Recentemente, Friedrich von Hayek ha attaccato la tesi di Weber e ha formulato la sua ipotesi secondo la quale i padri dell’economia di mercato e del capitalismo moderno furono i teologi spagnoli dei secoli XVI e XVII». L. Beltrán  

1. Perché è necessario l’incontro tra Chiesa cattolica e “mercato” 

Nella sua più importante opera, Socialismo (1922), Ludwig von Mises (1881-1973) si chiede: «non potrebbe essere possibile armonizzare la dottrina cristiana con un’etica sociale che promuova, invece di distruggere, la vita sociale e utilizzare così le grandi forze del cristianesimo a servizio della civiltà?». La Chiesa – dice Mises – si scontrò con la scienza moderna, condannò Galileo e più tardi ha combattuto la teoria darwiniana. Oggi, però, a nessuno studente delle Università Pontificie è proibito studiare le teorie fisiche più avanzate e la teoria evoluzionistica. E Mises si domanda: «Non potrebbe allora accadere la stessa cosa in sociologia? Non potrebbe la Chiesa conciliarsi con il principio sociale della libera cooperazione attraverso la divisione del lavoro? Il principio dell’amore cristiano non potrebbe essere interpretato in questo senso e a questo scopo?».

Insomma: non è forse il “mercato” il più efficace strumento della solidarietà? Ovvero la solidarietà deve ridursi al reciproco pianto sulle nostre miserie? È più solidale una società dove si divide in parti diseguali la ricchezza in un mondo di collaborazione e di pace; o si è più solidali laddove si divide in maniera comunque diseguale la miseria in un mondo di oppressione e di terrore, dove vige il principio per il quale “chi non obbedisce non mangia”? La questione oggi più urgente, e che i cattolici non possono eludere, è la seguente: se il mercato è il meccanismo che genera il maggior benessere per tutti, è allora errato vederlo come uno dei mezzi che, per quanto imperfettamente, contribuisce a realizzare il comando evangelico dell’amore? E, dunque, quali giustificazioni possono ancora addurre tanti cattolici per seguitare a prendere le distanze dal “mercato”? Ha davvero senso, da parte di credenti cattolici, porre il capitalismo e il socialismo sullo stesso piano? È razionale non scorgere la funzione della proprietà privata dei mezzi di produzione? Il profitto è il metro del successo di un’impresa; e il successo di un’impresa si deve al fatto che i suoi prodotti riescono a soddisfare bisogni e preferenze dei consumatori – i veri sovrani del mercato. Ebbene, noi cattolici possiamo ancora, accecati da istinti atavici, guardare al profitto come ad un furto? E l’imprenditore, che rischia nella libera concorrenza, è un ladro o un costruttore creativo di pubblico benessere? Analogamente a quanto accade nella scienza e nella democrazia, anche in ambito economico la competizione è la più alta forma di collaborazione. Cum+petere, infatti, è “cercare insieme”, in modo agonistico, la soluzione migliore.

Si sente ripetere che ricchezza e benessere “non salvano”. E allora? Forse che “salvano” miseria ed oppressione? Anche la scienza non “salva”; dobbiamo per questo abolirla? Contribuisce di più al pubblico benessere la proprietà privata dei mezzi di produzione o un’economia pianificata o anche, come nel caso italiano, un’economia strangolata da una inefficiente e non di rado corrotta burocrazia statale?

In conclusione: non è forse necessario, come auspicava Mises, un incontro tra Chiesa cattolica e “mercato”? E la Centesimus annus non indica ai cattolici tale direzione di marcia?

2. La gloriosa tradizione del pensiero cattolico liberale

La cultura cattolica può vantare una ininterrotta tradizione di pensiero liberale. Pensiero che – combattuto dalla sinistra comunista e socialista, sostanzialmente igno­rato da un laicismo anticlericale spesso ottuso, sepolto da un cattolicesimo di sinistra, succube da oltre cinquant’anni di idee accattate da una egemonica mitologia marxista – mostra al giorno d’oggi tutta la sua forza teorica, la sua praticabilità politica e il suo immenso valore morale. E questo è ben visibile negli eredi attuali della tradizione del liberalismo cattolico, eredi che sono Michael Novak, Leonard Liggio, Alejandro Chafuen negli Stati Uniti d’America; Jacques Garello, Philippe Nemo e Jean-Yves Naudet in Francia; Lucas Beltrán in Spagna; don Angelo Tosato in Italia.

Tornando indietro, troviamo Alexis de Tocqueville (1805-1859): «Quello che sopra ogni altro caratterizza ai miei occhi i socialisti di tutti i colori, di tutte le scuole, è una sfiducia profonda per la libertà, per la ragione umana, un profondo disprezzo per l’individuo preso in se stesso, al suo stato di uomo; ciò che li caratterizza tutti è un tentativo continuo, vario, incessante, per mutilare, per raccorciare, per molestare in tutti i modi la libertà umana; è l’idea che lo Stato non debba soltanto essere il direttore della società, ma debba essere, per così dire, il padrone di ogni uomo; il suo padrone, il suo precettore, il suo pedagogo [...]: in una parola, è la confisca, in un grado più o meno grande, della libertà umana».

Dopo Tocqueville, Lord Acton (1834-1902): «La mia storia è quella di un uomo che ha iniziato credendosi un cattolico sincero e un sincero liberale; che quindi ha rinunciato a tutto quello nel cattolicesimo che non era compatibile con la libertà, e a tutto quello che in politica non era compatibile con la cattolicità”. Questo scrive di se stesso Lord Acton, il più significativo rappresentante del cattolicesimo liberale inglese. Liberale attento ai diritti di proprietà, Acton non volle affatto ignorare i diritti della povertà – e ciò se non altro per la ragione che “ostacoli alla libertà sono non solo le oppressioni politiche e sociali, ma anche la povertà e l’ignoranza”. In ogni caso, il nucleo centrale del pensiero di Acton consiste nell’idea che la coscienza ha il diritto e il dovere di giudicare l’autorità. “La libertà è il regno della coscienza”. “In fondo tutta la libertà consiste nel preservare la sfera interna dall’invadenza del potere statale. Questo rispetto per la coscienza è il seme di ogni libertà civile e il modo in cui il cristianesimo è stato al suo servizio”. Né è da credere, precisa Acton, che la libertà sia un pacifico dato di fatto: “La libertà è non un dono ma una conquista; è uno stato non di riposo ma di sforzo e crescita [...] non un dato ma uno scopo”. In altri termini, la libertà non è affatto un prodotto della natura, quanto piuttosto della civiltà avanzata. La libertà del buon selvaggio è un’invenzione, pura mitologia, “noi invece intendiamo la libertà come il prodotto lento e il risultato più alto della civiltà”. Detto diversamente: “La libertà non è originaria, necessaria o ereditaria. Deve essere conquistata [...] Questa è la teoria medievale. Non sei libero, se non provi il tuo diritto a esserlo. La libertà è medievale, l’assolutismo è moderno”.

Ed ecco un altro cattolico liberale, Frédéric Bastiat (1801-1850): «Quando una nazione è oppressa da tasse, niente è più difficile – io direi pure impossibile – che ripartirle in maniera equa». E poi: «Allorché si sarà ammesso in via di principio che lo Stato ha l’incarico di operare in modo fraterno in favore dei cittadini, si vedranno tutti i cittadini trasformarsi in postulanti. Proprietà fondiaria, agricoltura, industria, commercio, marina, compagnie industriali, tutti si agiteranno per reclamare i favori dello Stato. Il tesoro pubblico sarà letteralmente saccheggiato. Ciascuno troverà buone ragioni per dimostrare che la fraternità legale deve essere intesa in questo senso: “I vantaggi per me ed i costi per gli altri” [...]. Lo sforzo di tutti tenderà a strappare alla legislazione un lembo di privilegio fraterno».

Tutti quei cattolici che, magari motivati dalle più nobili intenzioni, si sono scagliati contro la proprietà privata dovrebbero tornare a leggere le pagine della Filosofia del diritto di Antonio Rosmini (1797-1855), per il quale la proprietà privata è un valore connesso strettamente con la persona: è una condizione vitale della e per la persona e della sua libertà. La proprietà privata – scrive Rosmini – «costituisce una sfera intorno alla persona, di cui la persona è il centro; nella qual sfera niun altro può entrare». Commenta il rosminiano monsignor Clemente Riva, compianto vescovo ausiliare di Roma: «Rosmini concepisce la proprietà privata con un orizzonte amplissimo, che abbraccia valori culturali, spirituali, sociali, ma anche materiali ed economici. La proprietà privata, i mezzi di produzione, l’imprenditore, il profitto, sono tutte realtà che hanno una specifica funzione sociale. Questa è una dote della tradizione cattolica. Terze vie sono posizioni di una mediocre cultura sociale, che non va a fondo nella considerazione di un indebito statalismo».

Intellettuali cattolici e case editrici cattoliche hanno proibito ad intere generazioni di giovani di accostarsi – in questi ultimi cinquanta anni – alle idee del cattolicesimo liberale. Quando, il 12 febbraio del 1966, morì l’economista tedesco Wilhelm Röpke (nato nel 1899), l’allora cancelliere della Germania Occidentale, Ludwig Erhard, affermò che il miracolo tedesco era dovuto in gran parte alle idee e alle proposte di questo economista liberale cattolico. «I miei sforzi per il conseguimento di una società libera – disse Erhard – sono appena sufficienti per esprimergli la mia gratitudine, per avere egli radicalmente influenzato la mia concezione e la mia condotta». Oggi, in Italia, quanti sono i giovani cattolici che conoscono il nome di Röpke? «Antichità classica e Cristianesimo – scrive Röpke –, entrambi sono i veri antenati del liberalismo, perché sono gli antenati di una filosofia sociale che regola il rapporto, ricco di contrasti, tra l’individuo e lo Stato secondo i postulati d’una ragione inserita in ogni uomo e della dignità che spetta ad ogni uomo come fine e non come mezzo, e così contrappone alla potenza dello Stato i diritti di libertà del singolo». «Il liberalismo non è [...] nella sua essenza un abbandono del Cristianesimo, bensì è il suo legittimo figlio spirituale [...]. Il liberale diffida di ogni accumulazione di potere, perché sa che di ogni potere, che non viene tenuto nei suoi limiti da contrappesi, si fa presto o tardi abuso».

E, insieme a Röpke, è doveroso non dimenticare Konrad Adenauer (1876-1967). Ecco, di seguito, alcune sue idee: «La media proprietà è una sicurezza essenziale degli Stati democratici». «Una socializzazione troppo vasta rende troppo grande l’accumulazione della potenza nelle mani dello Stato e avevamo personalmente sofferto i pericoli che ne derivano per la vita di un popolo. Il socialismo porta necessariamente alla sottomissione dei diritti e della dignità dell’individuo allo Stato o a una collettività simile allo Stato». «Secondo la mia opinione, gli interessi paralleli ed economicamente coordinati sono e saranno sempre la base più sana e più duratura per dei buoni rapporti politici tra i popoli». «Il nazional-socialismo non era altro che la conseguenza spinta fino al crimine della potenza e del disprezzo, sì, del ludibrio del valore dell’individuo, risultante dall’ideologia materialista». «Il concetto della supremazia, della onnipotenza dello Stato, del suo primato sulla libertà e sulla dignità dell’individuo è in contraddizione con la legge della natura dei cristiani. Secondo il mio parere, l’esistenza e il rango dell’individuo devono venire prima dello Stato».

Nelle Prediche inutili, riferendosi al “caso Giuffré”, Luigi Einaudi (1874-1961) poneva ai vescovi domande che forse meritano ancora oggi doverosa attenzione: «I vescovi hanno adempiuto bene all’ufficio di curare nei seminari l’educazione economica dei giovani che sentono la vocazione del sacerdozio? Hanno procurato che si impartissero ai seminaristi le nozioni elementari necessarie per distinguere tra il lecito giuridico e il dovere caritativo, fra l’economia e la morale?». E poi: «Al sacerdote fa d’uopo insegnare, sì, ad essere caritatevole, non però ad incoraggiare l’ipocrisia e l’infingardaggine». «Fa d’uopo dire quanto sarebbe vantaggioso che nei seminari e nei licei si inculcasse l’idea che non esiste nessuna maniera, né semplice né misteriosa, di fare danaro a palate». [...] «Al sacerdote deve essere detto nei seminari che, non dovendo confondere l’economia con la carità, egli ha il dovere di non farsi ingenuo e cadere vittima, lui e i suoi fedeli, di lestofanti». Di Luigi Sturzo si parlerà nel seguito della presente introduzione. 

3. I cattolici liberali dei nostri giorni: M. Novak, L. Liggio, A. Chafuen, J. - Y. Naudet, J. Garello, P. Nemo, A. To­sato e L. Beltrán

La tradizione del pensiero liberale cattolico è, ai nostri giorni, più viva che mai. E fondamentale risulta all’interno di tale pensiero, la consapevolezza del ruolo svolto dall’economia di mercato.

L’uomo di punta del cattolicesimo liberale odierno è senz’altro Michael Novak, il teologo-economista americano i cui scritti e le cui idee hanno ricevuto e sempre di più riscuotono attenzione e consenso. «Tra tutti i sistemi di economia politica che si sono susseguiti nel corso della storia, nessuno – scrive Novak ne Lo spirito del capitalismo democratico e il cristianesimo – ha tanto rivoluzionato la prospettiva della vita umana – prolungandone la durata, rendendo pensabile l’eliminazione della povertà e della carestia, ampliando in ogni campo le possibilità di scegliere e affermarsi – quanto il capitalismo democratico». E per capitalismo democratico – specifica Novak – «intendo tre sistemi in uno: un’economia prevalentemente di mercato, una forma di governo rispettosa dei diritti della persona alla vita, alla libertà e al conseguimento della felicità; e un sistema di istituzioni culturali animate da ideali di libertà o di giustizia per tutti». Ed ecco la questione centrale: «La democrazia politica è compatibile solo con un’economia di mercato». La legittimità del sistema democratico «si fonda non già sul raggiungimento di uguali risultati, bensì sull’offerta di pari opportunità: tutti i cittadini devono avere fiducia di poter migliorare la propria condizione». «Il compito di giudei e cristiani non è solo di purificare le proprie anime, ma anche di cambiare il mondo; di edificare il “Regno di Dio” non solo nei propri cuori ma anche mediante l’opera delle loro mani». E nel più recente volume L’etica cattolica e lo spirito del capitalismo Novak asserisce: «Nell’intimo cuore del sistema capitalista vi è la fiducia nelle capacità creative dell’uomo. Come affermano i teologi cattolici, e come è provato dall’esperienza, questa fiducia è ben riposta. Tutti noi siamo stati plasmati a immagine di Dio, del Creatore, e ognuno di noi è a sua volta chiamato ad essere un co-creatore e a esercitare creativamente la sua vocazione. Ogni co-creatore è libero, il che equivale a dire che deve essere capace di assumersi le proprie responsabilità e che deve mostrare capacità di iniziativa. Nei cittadini, non più meri sudditi di un re o di un imperatore ma, al contrario, a pieno titolo sovrani, è nata una nuova attitudine: l’iniziativa». E ancora: «l’iniziativa è una virtù morale e intellettuale che porta a discernere tra le varie opzioni possibili e a compiere le proprie scelte in base alla necessità di beni e servizi. Dal Vecchio e dal Nuovo Testamento abbiamo imparato che, per provvedere ai nostri bisogni e ai nostri desideri, dobbiamo agire personalmente senza aspettare l’aiuto dello Stato, e che noi stessi dobbiamo essere in grado di mettere in moto i meccanismi necessari per raggiungere i traguardi che desideriamo. In questo modo abbiamo imparato a vivere come uomini e donne liberi, responsabili del nostro destino. E se pure ci inginocchiamo innanzi a Dio, di fronte al mondo stiamo a testa alta e ci facciamo carico delle nostre responsabilità personali».

Negli Stati Uniti di America, altra figura di grande rilievo del cattolicesimo liberale odierno è Leonard Liggio. Liggio nasce nel Bronx in New York il 5 luglio 1933 da padre cattolico e madre luterana. Storico della Chiesa e delle religioni, attualmente è docente di Storia delle Istituzioni Giuridiche alla George Mason University, è vice presidente dell’Atlas Economic Research Foundation ed è stato presidente della Mont Pélèrin Society. Egli si formerà alla scuola dei grandi liberali presenti in America nel secondo dopo-guerra. Sarà allievo di Mises e in rapporto con Rothbard, Hayek, Friedman e Leoni. Le sue ricerche vanno dallo studio delle relazioni internazionali ai rapporti tra Stato e Chiesa, dalla storia delle dottrine economiche al diritto naturale. Di particolare interesse risulta lo studio – nella presente antologia – sul dibattito aperto dall’opera dell’economista Henry George sul diritto di proprietà privata nell’America sul finire del XIX secolo e del suo influsso sulla redazione della Rerum novarum. Liggio individua una concreta connessione tra quel dibattito, che finì per coinvolgere la realtà ecclesiastica statunitense, e la promulgazione da parte di Leone XIII nel 1891 della lettera enciclica Rerum novarum. Scrive Liggio: «L’arcivescovo Michael Corrigan, a fronte della condanna segreta di Henry George, continuò a fare pressione sulla Curia Romana per un atto di dimostrazione pubblica della dottrina cattolica in merito al diritto di proprietà privata e all’illegittimità delle legislazioni che infrangono questo diritto [...]. Per soddisfare le richieste dei vescovi americani circa una dichiarazione pubblica della dottrina cattolica sulla proprietà privata in generale, e in riferimento agli scritti di Henry George in particolare, la Santa Sede elaborò dunque l’enciclica Rerum novarum. La Rerum novarum fu pubblicata da papa Leone XIII nel maggio del 1891».

Ai nostri giorni, negli Stati Uniti d’America, gode, e giustamente, di un grande prestigio Alejandro Chafuen. Chafuen è nato a Buenos Aires, in Argentina, nel 1954 ed attualmente è Presidente dell’Atlas Economic Research Foundation di Fairfax in Virginia, nell’interland di Washington D.C. Chafuen è noto per i suoi studi sul contributo cristiano, ed in particolar modo del cattolicesimo spagnolo, all’economia di mercato. Ha dedicato buona parte della sua attività di ricerca allo studio degli autori della scuola di Salamanca ed ha mostrato come concetti quali domanda ed offerta, tasso d’interesse, teoria del valore soggettivo fossero già presenti nelle opere di canonisti quali Juan de Mariana, Francisco de Vitoria, Domingo de Soto, Tomas de Mercado, Pedro Fernandez de Navarrete ed altri. Con particolare riferimento al tema della responsabilità sociale dell’azienda, Chafuen, in controtendenza rispetto alla vulgata dei nostri giorni, sostiene il valore individuale della responsabilità ed afferma che “gli imprenditori responsabili non hanno risposte facili. Come ha scritto François Michelin: ‘Il capitano di un’impresa deve navigare nella nebbia e nell’incertezza. È costretto ad agire nelle circostanze della vita reale, ed è esattamente lì che risiede il problema’. Una regola sicura è applicare alla responsabilità d’impresa il principio della responsabilità personale. Quando ‘qualcuno agisce con cattive intenzioni, allora è ritenuto responsabile’ [...] per provare che una persona non debba essere ritenuta responsabile di qualcosa, abbiamo bisogno di mostrare soltanto che andava oltre la sfera della sua libera influenza’. (Von Hildebrand). Dovremmo applicare tali principi in molti casi nei quali le persone agiscono in nome e per conto delle imprese”.

Passiamo ora dagli Stati Uniti alla Francia. Jean-Yves Naudet vede che i difetti della società ad economia di mercato hanno spinto tante persone a rifugiarsi nell’utopia e a cercare di costruire e istituire una società “perfetta”. Sennonché, si affretta a dire Naudet, «il problema è che l’uomo non è perfetto, è limitato e peccatore, e la società perfetta, di conseguenza, non può venir che imposta con la forza, contro la volontà degli uomini: qualsiasi ricerca di una società perfetta, del regno di Dio realizzato ad ogni costo sulla terra, non può che condurre al totalitarismo». Oggi, asserisce Naudet, i popoli oppressi dal totalitarismo comunista hanno riconquistato la loro libertà e stanno a fatica incamminandosi sulla via della libertà economica e del mercato. Nel mondo odierno, sostanzialmente, non c’è più, dunque, opposizione tra “economia di piano” ed “economia di mercato”. Si è ormai pervenuti – scrive Naudet – «al riconoscimento quasi universale del mercato quale unica misura di funzionamento economico conforme alla natura umana e insieme efficiente». Ma qui il problema più urgente, ineludibile, è quello di sapere – si chiede Naudet – cosa si vuol fare del mercato: «Il mercato, ma fino a dove? E, soprattutto, il mercato per fare che cosa? L’uomo ritrova progressivamente la libertà economica. Che ne farà? Cosa dovrà farne?». La risposta a siffatti interrogativi necessita, ad avviso di Naudet, di una illuminazione morale e religiosa che, «andando oltre la mentalità utilitaristica che domina nella società esistente», «faccia appello a quanto vi è di più importante nell’uomo» e indichi la giusta strada nel regno dei fini. Ebbene, Naudet è della ferma opinione che «la dottrina sociale della Chiesa offre, per la vita in società, degli insegnamenti essenziali». E, più in particolare, la Centesimus annus «mette bene in evidenza che il mercato è solo uno strumento, non un fine». Scrive Naudet: «Perché il mercato rimanga al suo posto, occorre in particolare sottometterlo rigidamente ad un’etica economica, denunciando i rischi dell’economicismo, che riduce l’uomo alla sua sola dimensione economica e materiale. Ma contro questo veleno dell’economicismo esistono parecchi antidoti e il più radicale, per Giovanni Paolo II, è la famiglia, presentata come la struttura fondamentale di questa “ecologia umana”, di questa “cultura della vita” desiderata dalla Chiesa per lo sviluppo integrale dell’uomo».

Ancora in Francia: per Jacques Garello, soltanto coniugando liberalismo e cattolicesimo, l’Occidente può ritrovare e ritroverà il suo equilibrio intellettuale, morale e spirituale. E l’incontro tra pensiero liberale e tradizione cattolica è ormai ineluttabile. Questo incontro l’ha preparato – sostiene Garello – soprattutto la grande opera di Friedrich A. von Hayek. Il pensiero cattolico ha per lungo tempo avversato il liberalismo, e ciò per la ragione che il liberalismo si presentava con tratti che non potevano inserirsi all’interno della dottrina cristiana e del pensiero sociale della Chiesa. Tali tratti erano il razionalismo di stampo illuministico, l’utilitarismo e il materialismo: le caratteristiche di fondo dell’homo oeconomicus. Hayek, però, ha distrutto la presunzione fatale dei “costruttivisti”, cioè di quei razionalisti che – eredi di «una irragionevole età della ragione» – abusano della ragione; ha combattuto l’orgoglio smisurato di un uomo che si reputa onnisciente; ha difeso una razionalità limitata; ha proposto un’immagine di uomo limitato, creatore e responsabile, non riducibile ad istanze utilitaristiche e materialistiche; ha visto nell’analisi delle conseguenze inintenzionali delle azioni umane intenzionali il compito delle scienze sociali; ha sostenuto – contro tutti i progetti di pianificazione utopistica – che il futuro non è e non sarà mai nelle nostre mani; ha difeso le istituzioni intermedie e, soprattutto, la famiglia; ha detto che la “Grande Società” può e deve aiutare i più svantaggiati, handicappati fisici e mentali, orfani e vedove. Ed è proprio basandosi su questi elementi del pensiero di Hayek che Garello è ragionevolmente ottimista circa gli esiti positivi che scaturiranno dall’incontro oggi non più rinviabile tra cattolicesimo e liberalismo.

Impegnato sul fronte del cattolicesimo liberale è un altro prestigioso intellettuale francese, vale a dire Philippe Nemo, autore, tra l’altro, di una imponente Histoire des idées politiques (in due volumi). Studioso di problemi di filosofia e di storia delle religioni, a partire dagli inizi degli anni Ottanta, Nemo ha dedicato i suoi maggiori sforzi all’analisi di tematiche relative alla filosofia politica. E anche lui, al pari di Garello e di uno dei suoi maestri, cioè Raymond Boudon, ha rivolto l’attenzione all’opera di Friedrich A. von Hayek. Di seguito, due suoi pensieri: «La religione biblica, a sua volta, rappresenta un caso senza precedenti in cui è la stessa potenza sacra che, mediante il mistero dei profeti, reclama una trasformazione profonda dell’uomo e del mondo, e dischiude la prospettiva di un avvenire completamente inedito. Da allora, l’uomo, sentendosi spalleggiato da Dio e vivendo come un suo collaboratore, può e deve fare della Storia un progetto. E, per cominciare, egli può pensare la Storia elaborandone il relativo concetto». E poi: «per una umanità messianica, chiamata da Dio a completare l’opera della Creazione, l’esistenza storica non può esser un “eterno ritorno”. L’uomo diventa quello che Sant’Agostino ha chiamato un irrequietum cor, un “cuore senza riposo”. Il tempo storico è “messo sotto tensione” dalla prospettiva escatologica: esso diventa un tempo di urgenza, il “tempo che resiste” per lottare di più e meglio contro il male, per diminuire, attraverso l’impiego di tutte le energie umane, la sofferenza dell’umanità. La Storia diventa un Progetto».

Dopo gli Stati Uniti d’America e la Francia, torniamo in Italia. E in Italia il cattolicesimo liberale ha trovato la difesa più seria, maggiormente agguerrita, e sicuramente più nuova ed inattesa nell’esegesi di don Angelo Tosato. «Dal confronto tra i socialismi reali (anche i più liberalizzati) e i capitalismi reali (anche i meno socialisti) emerge un’indicazione univoca: la strada che più e meglio conduce i popoli al benessere, elevandone maggiormente il tenore generale di vita, non è il sistema economico socialistico ma quello capitalistico». Questa è una verità fattuale. D’altro canto, una scrupolosa esegesi mostra che «la ricchezza che impedisce, a giudizio di Gesù, l’accesso al regno di Dio è quella che rende insensibili all’indigenza dei fratelli, fa trascurare la legge divina o porta a violare il precetto fondamentale dell’amore del prossimo». Nel Vangelo di Giovanni (12, 4-6) si legge di Giuda il quale si lamenta del fatto che la donna versa unguenti sul capo di Gesù: l’ungento poteva essere venduto a caro prezzo, e il ricavato poteva essere dato ai poveri. Ebbene, Giovanni precisa che a protestare era stato Giuda Iscariota, «colui che lo avrebbe tradito». E osserva: «Questo egli disse non perché gli importasse dei poveri ma perché era un ladro, e siccome teneva la cassa, prendeva quello che ci mettevano dentro». Commenta il professor Tosato: «Noi uomini di Chiesa, spesso zelanti nel promuovere l’assistenza ai poveri coi soldi altrui (e meno spesso, forse, nell’adoperarsi per una loro reale emancipazione), faremmo bene a meditare, di tanto in tanto, su questa pagina del Vangelo». L’analisi dei testi evangelici in cui si parla di povertà e di ricchezza porta don Tosato a concludere «che i tempi del dilettantismo, nella lettura e nella predicazione dei testi evangelici, non possono più continuare; e che oramai soltanto i fondamentalisti possono trovare in essi una condanna di principio del capitalismo, quale sistema economico di arricchimento individuale e sociale».

La Spagna ha in Lucas Beltrán uno dei maggiori esponenti del pensiero liberale cattolico. Nato nel 1911, di formazione cattolica, Beltrán si è laureato in giurisprudenza a Barcellona e ha frequentato la London School of Economics negli anni importantissimi del dibattito teorico tra Hayek e Keynes (e la scuola di Cambridge). Anni che lo hanno spinto decisamente e definitivamente verso l’economia e lo hanno allontanato gradualmente dagli studi giuridici. Autore di numerose opere, alcune delle quali di grande successo editoriale, al punto da essere riedite anche per cinque volte, ha insegnato economia politica presso le Università più prestigiose della Spagna, quali l’Uiversità di Salamanca e la Complutense di Madrid. Inoltre, ha potuto studiare i fenomeni economici anche da alcuni punti di vista privilegiati, essendo stato consigliere economico di alcuni esponenti di spicco della classe politica spagnola ed avendo assunto in prima persona incarichi politici tra gli anni ’60 e ’70. La sua produzione teorica ha cercato di perorare fortemente la tesi del liberalismo e dell’individualismo metodologico e di sostenere le affinità tra la fede cristiana e l’economia di mercato, come testimonia questo passaggio: “Molto spesso, il cristiano non è, in via di principio, un collettivista, però ha poca fiducia nella natura umana, il che è logico, data la sua fede: per il cristianesimo, l’uomo è un essere limitato e non può confidare pienamente in se stesso. Però se non può confidare nell’individuo, come può fidarsi del governo che è semplicemente un gruppo di individui?”.

4. Papa Leone XIII: perché il socialismo è la via della miseria e della schiavitù 

È doveroso non dimenticare che in un periodo storico in cui la proprietà privata dei mezzi di produzione veniva considerata come un furto dalla stragrande maggioranza degli intellettuali e, dietro a loro, dalle masse organizzate nei partiti marxisti e comunque socialisti, Leone XIII, nella Rerum novarum (1891), ne fece una difesa teoreticamente penetrante e moralmente coraggiosa. «I socialisti – affermava Papa Leone XIII – [...] attizzano nei poveri l’odio contro i ricchi, e sostengono che ogni proprietà di beni privati debba essere abolita, che i beni dei singoli debbano essere comuni a tutti o che la loro amministrazione appartenga al Municipio e allo Stato. Con questa trasformazione della proprietà da personale in collettiva, e con l’uguale distribuzione degli utili e degli agi tra i cittadini, credono che il male sia radicalmente eliminato». Sennonché, fa subito presente papa Leone XIII, «simile teoria, ben lontana dall’essere capace di mettere fine al conflitto, è dannosa agli stessi operai, e poi è assolutamente ingiusta, perché viola i legittimi diritti dei proprietari, snatura le funzioni dello Stato e scompagina tutto l’ordine sociale».

In realtà, «come è facile a comprendersi, lo scopo del lavoro, il fine immediato che si propone chi lavora, è la proprietà privata, e se egli impiega le sue forze e la sua industria a vantaggio degli altri, lo fa per procurarsi il necessario alla vita; e si attende dal suo lavoro non solo il diritto al salario, ma anche un diritto stretto e rigoroso di usarlo come a lui sembra meglio. Se, quindi, riducendo le sue spese, è riuscito a fare risparmi, e se, per meglio assicurarli, li ha, per esempio, investiti in un campo, questo campo non è che il salario trasformato: il fondo così acquistato sarà proprietà sua, né più né meno come la stessa mercede. Ora, appunto in questo, come ognuno sa, consiste la proprietà, sia mobiliare che immobiliare. Cosi, questo cambiamento della proprietà privata in proprietà collettiva, tanto decantato dai socialisti, non avrebbe altro risultato che quello di rendere la situazione degli operai più precaria, togliendo loro la libera disposizione del loro salario e togliendo loro in questo modo ogni speranza e ogni possibilità di aumentare il loro patrimonio e di migliorare la loro condizione».

La proprietà privata e personale è “diritto di natura”. Ed essa sta a base della libertà politica e della dignità della persona. Difatti, per dirla con Hayek, chi possiede tutti i mezzi stabilisce tutti i fini e, «una società socialista è una società dove chi non ubbidisce non mangia». Certo, afferma Leone XIII, «se qualche famiglia si trova in una situazione disperata e da se stessa non le sia possibile uscirne, è giusto, in tali casi estremi, l’intervento dei pubblici poteri, perché ogni famiglia è un membro della società [...]. Qui però deve arrestarsi lo Stato; la sua natura proibisce che si vada oltre». Dunque, potremmo dire: il mercato ovunque storicamente possibile, lo Stato dove socialmente necessario. Lo Stato in breve, non è onnivoro dei diritti inviolabili della famiglia e dell’individuo. Per cui «se gli individui, se le famiglie, entrando a far parte della società vi trovassero, invece di un sostegno, un ostacolo, invece di una protezione, una diminuzione dei loro diritti, la società sarebbe piuttosto da fuggire che da ricercare».

E ancora: «oltre all’ingiustizia del loro [dei socialisti] sistema, si vede fin troppo chiaramente quale confusione e scompiglio ne seguirebbe in tutti i settori della società; quale dura e odiosa servitù per tutti i cittadini. Si aprirebbe la via agli asti, alle recriminazioni, alle discordie; le fonti stesse della ricchezza, tolto ogni stimolo all’ingegno e all’abilità individuale, inaridirebbero; e la sognata uguaglianza non sarebbe di fatto che una condizione universale di abiezione e di miseria».

Riflessioni del genere sono di una importanza straordinaria: la ricchezza e il benessere collettivo trovano la loro scaturigine prima nell’ingegno e nell’abilità degli individui; mentre il sistema socialista porta ad una miseria generalizzata. E se ciò è vero, si deve allora concludere che «la comunanza dei beni proposta dal socialismo va assolutamente respinta, perché nuoce a quegli stessi che si vogliono aiutare, offende i diritti naturali di ciascuno, altera le funzioni dello Stato e turba la pace comune».

Va a grande merito di Leone XIII aver affermato che talvolta le buone intenzioni possono avere conseguenze diametralmente opposte a quelle intese: i socialisti intendono abolire la proprietà privata al fine di raggiungere il maggior benessere per il maggior numero di persone; l’esito di questa loro azione non potrà essere che l’immiserimento progressivo di tutti e la più crudele schiavitù per i popoli. Questo prevedeva Leone XIII nella Rerum novarum del 1891. Questo prevederà Ludwig von Mises negli anni Venti. E questo è quanto si è tragicamente verificato nel secolo appena trascorso. E, dunque, è etico il socialismo? E davvero etico il socialismo? Basta, sul serio, l’etica dell’intenzione? 

5. Lo scienziato e l’imprenditore: un’unica “logica”?

Problemi-congetture-confutazioni: in queste tre parole – ha scritto Karl R. Popper – si risolve tutto il modo di procedere della ricerca razionale. La ricerca scientifica avanza sul sentiero delle congetture e delle confutazioni. E parte sempre dai problemi: la ricerca scientifica è continua soluzione di problemi; e continua scoperta di nuovi problemi. E la soluzione dei problemi, la soluzione di volta in volta migliore – se c’è –, è frutto di una severa concorrenza tra idee: più idee non sono una miseria, sono una ricchezza. Misero (di proposte risolutive, di innovazioni, di ulteriori problemi) è chi presume di essere in possesso del «monopolio della verità». Tale monopolio, però, non può logicamente esistere: «nel campo di coloro che cercano la verità – ha detto Albert Einstein – non esiste alcuna autorità umana. Chiunque tenti di fare il magistrato viene travolto dalle risate degli dèi».

La presunzione fatale – per usare un’espressione di Hayek – di avere in mano «il monopolio della verità» offre i suoi equivalenti, in politica, nel totalitarismo e, in economia, nella pianificazione centralizzata. Le idee di fallibilità umana, di infondabilità razionale dei fini ultimi, di dispersione tra milioni e milioni di uomini di conoscenze particolari di tempo e di luogo e soprattutto, più specificamente, l’idea di ricerca scientifica vista come un processo senza fine di soluzioni di problemi attraverso la “concorrenza” di “più” idee trovano, a loro volta, i loro equivalenti, in politica, nella società aperta, vale a dire nella democrazia; e, in economia, nel “mercato”.

La realtà è che la logica della ricerca trova il suo analogo nella logica del mercato, nella logica cioè dell’imprenditore che inventa nuovi prodotti e li mette a prova su quei dati di fatto che sono le preferenze dei consumatori. «La direzione degli affari economici in una società di mercato è compito degli imprenditori. Loro è il controllo della produzione. Essi sono al timone e guidano la barca. Un osservatore superficiale crederebbe siano in posizione dominante, ma non lo sono. Sono difatti tenuti a obbedire incondizionatamente agli ordini del capitano, e questi è il consumatore». Questo scrive Ludwig von Mises ne L’azione umana. E aggiunge: «A stabilire ciò che ha da essere prodotto non sono né gli imprenditori né gli agricoltori né i capitalisti, ma i consumatori. Se un commerciante non obbedisce rigorosamente agli ordini del pubblico espressi dalla struttura dei prezzi, incorre in perdite, va in fallimento e così è rimosso dalla sua eminente posizione di guida. Lo rimpiazzano altri che hanno operato meglio nel soddisfare la domanda dei consumatori».

Sono, quindi, i consumatori a decidere se una merce (o un servizio) vale la pena di venir acquistata; e, dunque, sono loro a decretare il successo o l’insuccesso di un imprenditore. Da parte sua, «come ogni uomo d’azione, l’imprenditore è sempre speculatore. Egli si occupa delle condizioni incerte del futuro. Il suo successo o insuccesso dipende dalla correttezza della sua anticipazione di eventi incerti. Se sbaglia nella sua comprensione di cose a venire, è spacciato. L’unica fonte dei profitti dell’imprenditore è la sua abilità ad anticipare meglio degli altri la domanda dei consumatori».

L’imprenditore produce una merce (o un servizio) e se con ciò riesce a soddisfare i bisogni della gente, ottiene profitto, e resta sul mercato. Resta sul mercato non solo se riesce a risolvere vecchi problemi in modo migliore e a prezzi più bassi di quanto sappiano fare altri; vi rimane pure se sa creare con i suoi prodotti nuovi bisogni: basti qui pensare soltanto al telefono, all’orologio da polso, alla radio, alla lavatrice, ecc. L’imprenditore è, pertanto, creatore di nuovi problemi, di soluzioni per nuovi bisogni, e di nuove soluzioni per soddisfare in maniera più adeguata i vecchi bisogni.

«Gli imprenditori e i capitalisti – scrive sempre Mises – non hanno assicurazione preventiva se i loro piani rappresentano la soluzione più appropriata per l’attribuzione dei fattori di produzione alle varie branche di industria. È soltanto l’esperienza successiva che mostra loro dopo l’evento se avevano ragione o torto nelle loro imprese e nei loro investimenti». E, difatti, «il mercato prova quotidianamente gli imprenditori, eliminando quelli che non sanno passare la prova. Esso tende ad attribuire la condotta degli affari agli uomini che sono riusciti nel soddisfare i bisogni più urgenti dei consumatori. Questo è il solo importante aspetto per cui l’economia di mercato si può chiamare sistema del “prova e sbaglia”».

Analogamente a quanto accade nella ricerca scientifica, anche l’imprenditore procede per “tentativi ed errori”; e, analogamente a quanto avviene nella scienza, anche sul mercato vince – di volta in volta, e non certo per l’eternità – chi ha saputo inventare e produrre una “merce” che risolve un problema (magari prima inesistente) meglio di altre merci. E come nella scienza sovrani sono i fatti, così sul mercato (non truccato, senza protezioni) sovrani sono i consumatori con le loro preferenze, preferenze illuminate da valori scelti. Il mercato è un processo di soluzione di problemi. Ma esso è anche, o soprattutto, «un processo di esplorazione in cui gli individui cercano nuove opportunità che, una volta scoperte, possono essere usate anche da altri» (F. A. von Hayek).

Il liberale e il socialista (o comunista) non divergono sui fini. L’uno e l’altro vogliono il maggior benessere e la maggiore libertà per il maggior numero di persone, sperabilmente per tutti. Dove essi divergono è sui mezzi: i socialista è statalista ed interventista, è avverso alla proprietà privata dei mezzi di produzione, è propenso alla adozione della pianificazione centralizzata; il liberale è antistatalista e antinterventista, vede nella proprietà privata dei mezzi di produzione il fondamento del benessere e della più ampia libertà, e considera la concorrenza come la più alta forma di collaborazione.

6. I “valori” del mercato

Contro gli statalisti e contro gli onnivori monopolisti con mire di onnipotenza, i cattolici liberali difendono l’economia di mercato perché essa, in primo luogo, genera il maggior benessere per il maggior numero di persone e, sostanzialmente, per tutti. Ma ci sono altre e più importanti ragioni per cui il cattolico liberale difende l’economia di mercato. L’economia di mercato vuol dire, prima di ogni altra cosa, proprietà privata dei mezzi di produzione. Ed è esattamente la proprietà privata dei mezzi di produzione a garantire, nel modo più sicuro, le libertà politiche e i diritti individuali. Difatti, come ha scritto Hayek, «chi possiede tutti i mezzi stabilisce tutti i fini». Ed uno Stato, dove non esiste la proprietà privata, è uno Stato in cui sono automaticamente cancellate tutte le libertà fondamentali. Ci ricordano Mises ed Hayek: a che vale scrivere su di un pezzo di carta che c’è libertà di stampa, quando tutte le cartiere e tutte le tipografie appartengono allo Stato, cioè alla cricca al potere? Non è forse un inganno – come di fatto lo è stato – stabilire su di una Carta costituzionale che è garantita la libertà di riunione, se poi tutti i locali, comprese le chiese, appartengono allo Stato?

È una difesa lucida, spiegata nei principi e fondata nei fatti, una difesa della persona umana dallo statalismo e contro lo statalismo, quella propugnata da Tocqueville, Acton e Bastiat, da Rosmini, da Röpke, Adenauer, Einaudi e Sturzo e dai cattolici liberali più vicini a noi, da Novak a don Tosato.

L’economia di mercato genera il più ampio benessere. Sta a fondamento delle libertà politiche. Esige la pace, interna ed esterna, giacché altrimenti si distruggerebbe la condizione minimale che rende possibile la cooperazione in regime di divisione del lavoro. A nessuno è lecito scambiare il “profitto” con il “saccheggio”. Sul porto di Amsterdam c’era scritto: Commercium et pax. È Mises a scrivere che «la pace è la teoria sociale del liberalismo». E, prima di lui, il cattolico Bastiat aveva asserito: «Se su di un confine non passano le merci, vi passeranno i cannoni». Insomma: la libertà economica, vale a dire la “logica di mercato”, genera la più ampia prosperità; è a fondamento delle libertà politiche; esige la pace. E pone al centro della umana comunità una persona libera, creativa, responsabile.

7. Liberalismo personalistico

Konrad Adenauer ha sostenuto – su ciò in linea con Mises e con Hayek – che in Germania il nazismo era stato preparato dall’idolatria socialista per lo Stato onnipotente, sul cui altare sacrificare i diritti degli individui. Non sbagliava, di certo, Adenauer – come non sbagliava don Sturzo nei suoi continui e feroci attacchi allo statalismo. Per il pensiero liberale esistono solo individui, solo persone che, agendo liberamente in base alle loro idee, generano effetti intenzionali e conseguenze inintenzionali. Ed è stato Röpke a parlare di liberalismo personalistico. Ebbene, saremo proprio noi cattolici a rifiutare questa concezione “personalista” dell’individuo e dell’azione umana? Dobbiamo forse abbracciare l’idea liberticida, stando alla quale, sopra all’individuo c’è qualche altra entità come lo Stato o il partito o la classe? Qualche altra entità autonoma e indipendente dagli individui? Esiste l’amore o esistono soltanto gli innamorati? Il partito è una realtà autonoma e indipendente dagli individui o il partito è soltanto un nome per indicare individui che hanno certe idee e che agiscono in base ad esse? Esiste la mafia o esistono unicamente i mafiosi? E, dunque, cos’è lo Stato, se non idee e comportamenti conseguenti di individui? In tal modo che cos’è il bene dello Stato, il bene comune, se non il bene di individui?

Quello che chiedo ai miei maestri e agli amici cattolici è se dare sostanza a concetti collettivi – quali “nazione”, “Stato”, “partito”, “classe”, “fisco”, ecc. – se farli diventare cose, reificarli, sia o non sia un’operazione liberticida. I concetti collettivi sono «uno spettro sempre in agguato»: questo pensava Max Weber. A Weber fa eco Mises: «Il rifiuto dell’individualismo metodologico implica il presupposto che il comportamento degli uomini sia guidato da alcune forze misteriose non suscettibili di analisi e di descrizione». Il rifiuto dell’individualismo equivale all’annullamento della persona, alla distruzione della libertà e della responsabilità dei singoli. E, allora, dove dovrà situarsi un cattolico in questa lotta tra individualisti e collettivisti?; dovrà forse scegliere Marx al posto di Weber, o Lenin al posto di Hayek, o Adorno al posto di Popper? Una cosa deve essere chiara, e cioè che una scelta anti-individualistica è una scelta che annienta la libertà della persona umana.

E ancora una considerazione e tre testimonianze. Una considerazione: l’individualismo della filosofia liberale non significa minimamente né comporta l’egoismo. Solo l’individuo pensa, solo l’individuo ragiona, solo l’individuo agisce: questa è l’essenza dell’individualismo. L’individuo può avere pensieri altruistici e agire con la più grande generosità. Prima testimonianza: «Eliminate una concezione individualistica della società. Non riuscirete a giustificare la democrazia come forma di governo» (N. Bobbio). La seconda testimonianza la dobbiamo a Popper, il quale, in una intervista di non molti anni fa, ha dichiarato: «Vorrei inoltre aggiungere [...] che parlare di società è estremamente fuorviante. Naturalmente si può usare un concetto come la società o l’ordine sociale; ma non dobbiamo dimenticare che si tratta solo di concetti ausiliari. Ciò che esiste veramente sono gli uomini, quelli buoni e quelli cattivi – speriamo non siano troppi questi ultimi, comunque gli esseri umani, in parte dogmatici, critici, pigri, diligenti o altro. Questo è ciò che esiste davvero». Esistono gli uomini che creano, si trasmettono e mutano idee, producendo, con le loro azioni, conseguenze intenzionali e conseguenze inintenzionali. Sono gli uomini che esistono, «ma ciò che non esiste è la società. La gente crede invece alla sua esistenza e di conseguenza dà la colpa di tutto alla società o all’ordine sociale». Ecco, dice Popper, «uno dei peggiori sbagli è credere che una cosa astratta sia concreta. Si tratta della peggiore ideologia». Per la terza testimonianza torniamo di nuovo a Fédéric Bastiat: «Abbiamo difficoltà a capire ciò che viene designato con la parola “Stato”. Crediamo che in questa costante personificazione dello Stato ci sia la più strana, la più umiliante delle mistificazioni. Cos’è dunque questo Stato che si fa carico di tutte le virtù, di tutti i doveri e di tutte le generosità? Da dove trae tali risorse che lo si spinge a distribuire in forma di favori agli individui? Non le trae dagli stessi individui? Come dunque queste risorse possono accrescersi passando nelle mani di un intermediario esoso e parassitario?».

Ebbene: hanno torto Weber, Mises, Popper e Bobbio? Aveva torto Adenauer? Aveva torto Bastiat?

8. La compra-vendita di armi e droga non è colpa del “mercato”: il mercato è sempre innocente 

È il valore della solidarietà quello cui fanno appello tanti amici cattolici per scagliarsi contro l’economia di mercato. L’economia di mercato – si dice – è esattamente l’opposto della solidarietà. La competizione viene vista come una guerra che, ovviamente, emargina i vinti. Il profitto sarebbe semplicemente un furto. Il mercato – si aggiunge – è spietato: schiaccia tutto e tutti e non si accorge nemmeno dell’esistenza di persone che, come per esempio i portatori di handicap, nella competizione non possono neppure pensare di entrare. E le critiche diventano un rifiuto secco e totale del mercato allorché si punta il dito su quella orribile cosa che è la compra-vendita di armi micidiali o della droga. Il “mercato” delle armi e il traffico di droga sono gli argomenti più usati contro l’economia di mercato.

Non è proprio il caso di porre in discussione le buone intenzioni di quanti – cattolici o no – sono contrari al mercato in nome della solidarietà nei confronti dei più umili, degli svantaggiati, di quanti hanno urgente bisogno di cure indispensabili e di aiuto. Ma, come ben si sa, di buone intenzioni son lastricate le vie dell’inferno. Scriveva Thoreau nel 1845: «Non c’è odore peggiore di quello della bontà andata a male [...]. Se sapessi per certo che qualcuno sta venendo a casa mia col deliberato consenso di farmi del bene, scapperei a gambe levate». Milton Friedman commenta così questo pensiero di Thoreau: «Chiunque è libero di fare del bene, ma a spese sue».

Non è, dunque, questione di intenzioni. Ma il fatto è che si guarda al mercato delle armi e si rifıuta la “logica del mercato”. Qui occorre domandarsi: siamo di fronte ad una argomentazione valida? E possiamo subito e solo rispondere che l’argomentazione è sbagliata. Rifiutare la logica di mercato per la ragione che esiste un mercato delle armi sarebbe come dire che occorre abolire la scienza perché la fisica ha scoperto l’energia nucleare e la chimica ci ha fatto conoscere gli effetti del curaro. Ma è chiaro che se uno usa il curaro per uccidere un’altra persona, la colpa non è né del curaro né della scienza; colpevole è soltanto l’assassino e malvagia è la sua etica. Analogamente, se uno realizza profitto vendendo armi, colpevole non è il “mercato”; colpevoli sono coloro che vendono e comprano armi e disumana è la loro etica. Il mercato è sempre innocente. 

9. Lo Stato liberale e la difesa dei più deboli 

Si dice che i difensori dell’economia di mercato siano ciechi e sordi dinanzi alle sofferenze dei più deboli e che vogliano uno Stato che funzioni, ma che funzioni soltanto per i vincitori. Ma proprio su questo punto, sulle funzioni dello Stato e la difesa dei più deboli, sono degne di attenta considerazione le riflessioni del più illustre rappresentante del liberalismo odierno vale a dire di Friedrich A. von Hayek, premio Nobel per l’economia nel 1974. In Legge, legislazione e libertà Hayek afferma che molte delle comodità capaci di rendere tollerabile la vita in una città moderna vengono fornite dal settore pubblico: «La maggior parte delle strade [...], la fissazione degli indici di misura, e molti altri tipi di informazione che vanno dai registri catastali, mappe e statistiche, ai controlli di qualità di alcuni beni e servizi». È chiaro, inoltre, che l’esigere il rispetto della legge, la difesa dai nemici esterni, il campo delle relazioni estere sono attività dello Stato. E c’è sicuramente di più, poiché «pochi metteranno in dubbio che soltanto questa organizzazione [dotata di poteri coercitivi: lo Stato] può occuparsi delle calamità naturali quali uragani, alluvioni, terremoti, epidemie e così via, e realizzare misure atte a prevenire o rimediare ad essi». Ed è ovvio, allora, «che il governo controlli dei mezzi materiali e sia sostanzialmente libero di usarli a propria discrezione». Tuttavia, vi è – e qui le considerazioni che seguono sono di estrema importanza e smentiscono parecchie interpretazioni affrettate e certamente non documentate del pensiero di Hayek –, «vi è ancora – scrive Hayek – tutta un’altra classe di rischi rispetto ai quali è stata riconosciuta solo recentemente la necessità di azioni governative, dovuta al fatto che come risultato della dissoluzione dei legami della comunità locale e degli sviluppi di una società aperta e mobile, un numero crescente di persone non è più strettamente legato a gruppi particolari su cui contare in caso di disgrazia. Si tratta del problema di chi, per varie ragioni, non può guadagnarsi da vivere in un’economia di mercato, quali malati, vecchi, handicappati fisici e mentali, vedove e orfani – cioè coloro che soffrono condizioni avverse, le quali possono colpire chiunque e contro cui molti non sono in grado di premunirsi da soli, ma che una società la quale abbia raggiunto un certo livello di benessere può permettersi di aiutare».

Una società che abbia abbracciato la “logica di mercato” può permettersi il conseguimento di fini umanitari perché è ricca, e può farlo tramite operazioni fuori mercato e non con manovre che siano correzioni del mercato medesimo. Ma ecco quella che, ad avviso di Hayek, è la ragione per cui essa deve farlo: «Assicurare un reddito minimo a tutti, o un livello sotto cui nessuno scenda quando non può più provvedere a se stesso, non soltanto è una protezione assolutamente legittima contro rischi comuni a tutti, ma è un compito necessario della Grande Società in cui l’individuo non può rivalersi sui membri del piccolo gruppo specifico in cui era nato». E, in realtà, ribadisce Hayek, «un sistema che invoglia a lasciare la relativa sicurezza goduta appartenendo ad un gruppo ristretto, probabilmente produrrà forti scontenti e reazioni violente, quando coloro che ne hanno goduto prima i benefici si trovino, senza propria colpa, privi di aiuti, perché non hanno più la capacità di guadagnarsi da vivere». Quali serie obiezioni si possono addurre contro questa posizione di Hayek? E se Hayek ha ragione, che senso, quale valore ha il dissennato e deleterio interventismo predicato e praticato per anni e anni dalle folte schiere dei cattolici di sinistra? Può ancora venir camuffato per solidarietà lo spudorato storno – cioè il furto – di risorse da chi produce a clientes parassiti che per mestiere fanno gli elettori. 

10. L’insegnamento di don Luigi Sturzo

Se l’abate Antonio Rosmini, in Italia, è la stella del pensiero liberale cattolico dell’Ottocento, don Luigi Sturzo è il maestro del pensiero liberale cattolico del Novecento.

24 aprile 1951: «La democrazia vera non è statalista».

11 agosto 1951: «Smobilitiamo, appena vi sia la possibilità, tutti gli enti che potranno essere passati all’economia privata, ovvero resi perfettamente autonomi. A far ciò primo e unico passo: proibizione per legge che gli impiegati statali di qualsiasi rango possano essere nominati amministratori, commissari e sindaci degli enti statali, parastatali o con partecipazione statale».

4 ottobre 1951: «Io non ho nulla, non possiedo nulla, non desidero nulla. Ho lottato tutta la mia vita per una libertà politica completa ma responsabile. La perdita della libertà economica, verso la quale si corre a gran passo in Italia, segnerà la perdita effettiva della libertà politica, anche se resteranno le forme elettive di un parlamento apparente che giorno per giomo seguirà la sua abdicazione di fronte alla burocrazia, a sindacati e agli enti economici, che formeranno la struttura del nuovo Stato più o meno bolscevizzato. Che Dio disperda la profezia».

6 ottobre 1951: Sturzo lamentava: «Quel poco che ci mette l’iniziativa privata da sola, al di fuori del contatti ibridi e torbidi con lo Stato, è merito di imprenditori intelligenti, di tecnici superiori, di mano d’opera qualificata della vecchia libera tradizione italiana. Ma va scomparendo sotto l’ondata dirigista e monopolista».

18 ottobre 1951: «Il paternalismo dello Stato verso gli enti locali, con sussidi, concorsi, aiuti e simili, toglie il senso della responsabilità della pubblica amministrazione e concorre in gran parte a deformare al centro il vero carattere del deputato. Era questi un servo degli elettori anche prima del fascismo, ma oggi arriva perfino ad essere il trafficante degli interessi dei parassiti dello Stato».

Il 4 novembre 1951: «Oggi si è arrivati all’assurdo di voler eliminare il rischio per attenuare le responsabilità fino ad annullarle [...]. Gli amministratori, i direttori, gli esecutori degli enti statali sanno in partenza che se occorrono prestiti, garantisce lo Stato; se occorre lavoro dovrà trovarlo lo Stato; se si avranno perdite si ricorrerà allo Stato; se si produce male ripara lo Stato; se non si conclude un granché, i prezzi li mantiene alti lo Stato. Dov’è il rischio? Svaporato. E la responsabilità? Svanita. E l’economia? Compromessa [...]. In Italia, oggi, solo le aziende dei poveri diavoli possono fallire; le altre sono degne di salvataggio, entrando per questa porta a far parte degli enti statali, parastatali e pseudo-statali. Il rischio è coperto in partenza, anche per le aziende che non sono statali, ma che hanno avuto gli appoggi dello Stato. In un paese, dove la classe politica va divenendo... impiegatizia [...]; dove la classe economica si statizza; dove la classe salariale va divenendo classe statale, non solo va a morire la libertà economica, ma pericola la libertà politica».

Il 17 novembre 1952: «Abbiamo in Italia una triste eredità del passato prossimo, e anche in parte del passato remoto, che è finita per essere catena al piede della nostra economia, lo statalismo economico inintelligente e sciupone, assediato da parassiti furbi e intraprendenti e applaudito da quei sindacalisti senza criterio, che credono che il tesoro dello Stato sia come la botte di san Gerlando, dove il vino non finiva mai».

6 dicembre 1952: «Lo statalismo non risolve mai i problemi economici e per di più impoverisce le risorse nazionali; complica le attività individuali, non solo nella vita materiale e degli affari, ma anche nella vita dello spirito».

27 marzo 1955: «L’errore fondamentale dello statalismo è quello di affidare allo Stato attività a scopo produttivo, connesse ad un vincolismo economico che soffoca la libertà dell’iniziativa privata. Se nel mondo c’è stato effettivo incremento di produttività che ha superato i livelli delle epoche precedenti ed ha fatto fronte all’incremento demografico, lo troviamo nei periodi e nei paesi a regime libero basato sull’attività privata singola o associata».

3 maggio 1955: «Mi permetto di aggiungere il voto che [...] si tenga fermo il principio della libertà economica, elemento necessario in regime democratico, cardine di prosperità e spinta al progresso».

11. La grande polemica fra Luigi Sturzo e Giorgio La Pira 

Siamo nel 1954 e Giorgio La Pira in una lettera all’allora presidente della Confindustria Angelo Costa scrive che non ha senso parlare di libera concorrenza e di iniziativa privata «in uno Stato, come il nostro, nel quale la quasi totalità del sistema finanziario è statale e in cui 3/4 circa del sistema produttivo è, direttamente o indirettamente, statale!». E aggiunge che sostenere la tesi opposta, così come fanno i rappresentanti della Confindustria, equivarrebbe ad andare «contro l’economia moderna – che è economia essenzialmente di “intervento statale” anche se diversamente graduata – mentre le aziende di Stato e parastatali costituiscono, direttamente o indirettamente, la spina dorsale della sua organizzazione e il coeffıciente massimo del suo peso economico e politico e della sua forza sociale».

Sturzo è decisamente contrario a La Pira. Certo, egli è persuaso che «La Pira da buon cristiano non vuole altro dio fuori del vero Dio. Per lui, come per me, lo Stato è un mezzo, non è un fine, neppure il fine. Egli è lo statalista della povera gente; ed è arrivato, attraverso la povera gente, a pensare che lo Stato, tenendo in mano l’economia, possa assicurare a ciascun cittadino il suo minimo vitale». Ma proprio qui – dice Sturzo – sta l’errore: lo statalista della povera gente è pur sempre, e semplicemente, uno statalista. E lo statalismo porta alla fame e distrugge libertà e diritti umani.

La Pira pensava che i problemi del nostro Paese si sarebbero risolti ponendo «la totalità del sistema finanziario in mano allo Stato». La Pira crede che «il mondo civile vada verso la soppressione di ogni libertà economica, per affidare tutto allo Stato», ma egli – asserisce Sturzo – valuta in modo inesatto «le fasi monetarie, finanziarie ed economiche del dopoguerra sia in America che in Europa».

Di fronte alla pretesa statalista proveniente anche da parte cattolica, Sturzo confessa di sentire l’eco del motto mussoliniano: «tutto per lo Stato e nello Stato; nulla sopra, fuori e contro lo Stato». Ebbene, contro lo statalismo, «contro questo dogma – dichiara Sturzo – io voglio levare la mia voce senza stancarmi finché il Signore mi darà fiato; perché sono convinto che in questo fatto si annidi l’errore di fare dello Stato l’idolo: Moloch o Leviathan che sia». E poi: non è affatto vero che lo statalismo produce benessere: «la storia – sottolinea Sturzo – non ci dà un solo esempio di benessere economico a base di economia statale [...]. Chi vuole un esempio pratico, confronti la Cecoslovacchia del 1919-’39 (repubblica libera), con la Cecoslovacchia del 1945-’47 (repubblica controllata) e la Cecoslovacchia di oggi (paese satellite comunistizzato)».

È fuor di dubbio, soggiunge Sturzo, che le gestioni statali sono quasi tutte passive o, se per raro caso, attive sono sempre più costose. E di questo ecco le cause: «mancanza di rischio economico che attenua il senso della responsabilità; interferenza politica che attenua o annulla, secondo i casi, la caratteristica dell’impresa». D’altro canto, gli effetti negativi della statizzazione sono evidenti: «se le gestioni statali costano di più e vanno in perdita, i maggiori costi e le continue perdite sottraggono allo Stato e alla generalità una non indifferente somma di risparmio trasferito allo Stato che, impiegata utilmente, avrebbe dato lavoro agli operai e massa di beni prodotti al mercato interno e internazionale, ovvero avrebbe concorso a far diminuire il deficit della bilancia commerciale o a ridurre gli alti costi della nostra produzione. I vantaggi, non immediati, a breve o a lunga scadenza, sarebbero tali da assicurare un maggiore benessere per tutti».

La Pira, dunque, sbaglia. E con lui sbagliano, ad avviso di Sturzo, i cattolici che la pensano come lui. Costoro «dovrebbero finirla con il vagheggiare una specie di marxismo spurio». Sturzo non nega affatto «la necessità di interventi statali di eccezione per casi eccezionali, interventi temporanei e adeguati». Ma prosegue: «Nego che lo Stato debba annullare la libertà economica sotto il pretesto della socialità, non solo per il valore morale della libertà (alla quale La Pira, e non è il solo, non mostra interesse); ma anche perché i conti non tornano, siano i conti del caso per caso, siano i conti generali del ciclo economico».

Tali considerazioni di Sturzo le troviamo su Il Giornale d’Italia del 13 maggio 1954. Il 15 maggio, sempre sullo stesso giornale, Sturzo ribadisce: «La soppressione della libertà economica importa presto o tardi la perdita delle altre libertà; dissi e ripeto che la libertà è totale o non è libertà». E ancora su Il Giornale d’Italia del 23 maggio, nell’articolo Risposta alla lettera del Sindaco La Pira, don Sturzo scrive: «Io contesto a La Pira la sua concezione dello Stato moderno: egli scrive la frase da me citata, che “la economia moderna è essenzialmente di intervento statale”. Se le parole valgono per quel che suonano, quell’essenzialmente toglie allo Stato moderno la caratteristica di Stato di diritto e lo definisce Stato totalitario».

Sturzo difende la libera iniziativa basandosi «sulla convinzione scientifica che l’economia di Stato non solo è anti-economica, ma comprime la libertà e per giunta riesce meno utile, o più dannosa secondo i casi, al benessere sociale». Siamo nel 1954 e Sturzo scrive: «Prego La Pira di informarsi come la Germania abbia potuto dopo la guerra riprendersi al punto da presentare aspetti economici di concorrenza che cominciano a preoccupare i cosiddetti vincitori». E il 26 settembre del 1955, su L’azione popolare di Reggio Calabria, Sturzo torna sulle idee e le proposte di La Pira, pubblicando un articolo intitolato Polemica con La Pira, dove egli rimprovera La Pira e i suoi amici di non riconoscere «l’esistenza o la portata vincolativa» delle leggi economiche e di non rendersi conto del fatto che «un paese industrializzato non ha che un’alternativa: o è basato sulla libera iniziativa e l’economia di mercato; ovvero è statizzato al tipo estremo di socialismo di Stato». E, da ultimo, una sfida: «Portino gli statalisti l’esempio di un solo Stato civile, altamente industrializzato, con un’economia, anche dopo la guerra, in prosperità, che abbia adottato l’economia statalizzata che essi desiderano».

12. Don Luigi Sturzo: un amico della Montessori in lotta per la scuola libera 

Si potrebbe seguitare a riportare pensieri di tono simile dagli scritti di Sturzo. Mi limito al più caustico e più breve: «Lo Stato è per definizione inabile a gestire una semplice bottega di ciabattino» (11 agosto 1951). E se lo Stato è incapace di amministrare una bottega di ciabattino, come è stato possibile che in Italia i cattolici abbiano affidato allo Stato il quasi-monopolio della scuola? In un lungo articolo del luglio del 1947, intitolato La libertà della scuola, don Sturzo, tra l’altro, scriveva: «Finché la scuola in Italia non sarà libera, nemmeno gli italiani saranno liberi». E ancora: «Ogni scuola, quale che sia l’ente che la mantenga, deve poter dare i suoi diplomi non in nome della repubblica, ma in nome della propria autorità: sia la scoletta elementare di Pachino o di Tradate, sia l’Università di Padova o di Bologna, il titolo vale la scuola. Se la tale scuola ha una fama riconosciuta, una tradizione rispettabile, una personalità nota nella provincia o nella nazione, o anche nell’ambito internazionale, il suo diploma sarà ricercato; se, invece, è una delle tante, il suo diploma sarà uno dei tanti». Questo scriveva Sturzo il 21 febbraio del 1950.

Il 6 maggio del 1952 muore a Noordwjk, in Olanda, Maria Montessori. Il 17 giugno Sturzo scrive un articolo dal titolo Ricordando Maria Montessori. Nel 1907 Sturzo, già da due anni sindaco di Caltagirone, in una delle sue frequenti visite a Roma – in qualità di consigliere dell’Associazione nazionale dei comuni – incontra presso amici la dottoressa Montessori. E fu proprio lei ad invitare don Luigi a visitare la sua scuola nel quartiere san Lorenzo. E dopo quella prima visita, «andai più volte – ricorda Sturzo – a san Lorenzo; il mio interessamento si accrebbe di volta in volta; e Maria Montessori non dimenticò mai il piccolo prete che per primo aveva preso diretto interesse alla sua iniziativa, l’aveva incoraggiata, ed aveva affermato che nessuna pregiudiziale anticristiana fosse alla base di quell’insegnamento; cosa che poteva essere introdotta in questo e in altri metodi da maestri non credenti».

Nel 1924 Sturzo lascia l’Italia per l’esilio; nel giugno del 1925 incontra a Maria Montessori e non esita a paragonarla con Francesca Cabrini. «La confrontavo con un’altra italiana, maestrina, fondatrice di ordine religioso, allora beata e poscia santa Francesca Saveria Cabrini, che l’America del Nord stima sua concittadina, e che ha fama anche presso il mondo protestante. L’avevo conosciuta anch’essa personalmente dieci anni prima di aver conosciuto la Montessori, proprio per il mio interessamento alle scuole infantili ed elementari, nel desiderio di avere a Caltagirone una casa delle figlie missionarie del Sacro Cuore da lei fondate; così come avevo desiderato aprirvi una scuola Montessori. Le mie iniziative fallirono allora, l’una e l’altra per mancanza di soggetti».

La Montessori è figura prestigiosa nel mondo e il suo metodo è ben conosciuto a livello internazionale. E perché mai, dunque, il metodo Montessori non si è diffuso nelle scuole italiane? Dinanzi a tale domanda don Sturzo annota con amarezza: «Allora, come oggi, debbo dare la stessa risposta: si tratta di vizio organico del nostro insegnamento: manca la libertà; si vuole l’uniformità; quella imposta da burocrati e sanzionata da politici. Manca anche l’interessamento pubblico ai problemi scolastici; alla loro tecnica, all’adeguamento dei metodi alle moderne esigenze». Sturzo, però, non si ferma qui. E penetra nel cuore del problema: «Forse c’è di più: una diffidenza verso lo spirito di libertà e di autonomia della persona umana, che è alla base del metodo Montessori. Si parla tanto di libertà e di difesa della libertà; ma si è addirittura soffocati dallo spirito vincolistico di ogni attività associata dove mette la mano lo Stato; dalla economia che precipita nel dirigismo, alla politica, che marcia verso la partitocrazia, alla scuola che è monopolizzata dallo Stato e di conseguenza burocratizzata».

13. Il monopolio (o quasi-monopolio) statale della scuola è il tratto più decisivo dello Stato etico

E, qua giunti, viene da chiedersi e da chiedere: che cosa aspetta il mondo cattolico per scatenare le sue forze più sane e più consapevoli in vista della realizzazione della scuola libera? Non sono forse sufficienti gli insegnamenti di Sturzo? Quali obiezioni contro il “buono-scuola”? Perché, nei limiti della normativa europea, non abolire il valore legale del titolo di studio?

Se la logica del mercato è la logica della scienza, e se la logica della scienza è una logica razionale – l’unica che ci permetta di avvicinarci alle soluzioni, via via, migliori – perché mai escludere questa logica dall’organizzazione della scuola?

Certo, storicamente fu forse necessario che lo Stato si assumesse il grande compito dell’organizzazione e della gestione della scuola nell’Italia unificata. Compito svolto più o meno bene, ma che sicuramente ha avuto esiti socialmente di enorme rilievo.

Ora, però, è venuto il tempo in cui non bisogna lasciar cadere un problema che in questi ultimi anni è diventato sempre più pressante: e perché dovremmo vietare che la logica della concorrenza porti i suoi benèfici frutti nell’ambito della scuola?

Un cittadino è libero di scegliersi il tipo di dentifricio o la marca della macchina; e perché, invece, non dev’essere libero di scegliere gli insegnanti per i propri figli? Perché non dovrebbe essere libero di scegliere una scuola con un certo programma invece che con un altro? Lo “Stato maestro” non è forse il tratto più decisivo dello “Stato etico”?

Naturalmente non si dice che un governo non debba istituire e gestire “scuole statali”, si dice soltanto che lo Stato non deve avere il “monopolio” o il “quasi-monopolio” della scuola. E si dice che le scuole dello Stato dovrebbero misurarsi con le scuole non statali a pari condizioni di concorrenza. Ma, in Italia, le scuole di Stato sono “protette” dalla finanza pubblica, mentre le scuole non statali non godono di siffatta protezione.

Ebbene: questa protezione della scuola di Stato va a vantaggio dei cittadini? Va a vantaggio della stessa scuola di Stato? È questa la domanda che non possiamo eludere e alla quale dobbiamo onestamente rispondere con un deciso: no!

La negazione della logica di mercato nell’ambito della scuola porta necessariamente ad uno spreco di risorse, alla irresponsabilità da parte dei docenti e degli allievi. Quello che la scuola di Stato dà è un titolo. Ma la società chiede competenze. E quale scuola è meglio finalizzata a dare competenze, una scuola di Stato “protetta” o una scuola di Stato irrobustita e responsabilizzata nel libero cimento del mercato? Come si può pretendere che la scuola ottenga i risultati conseguibili soltanto con la logica del mercato se lo Stato nega o abolisce le regole del mercato? Se sul mercato il consumatore è sovrano, per quale ragione il cittadino è e deve restare un suddito ubbidiente e vessato nell’ambito della scuola, che è l’ambito umanamente e socialmente più delicato e più importante?


 


* Il presente documento è tratto da D. Antiseri, Cattolici a difesa del mercato, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 2005. Si ringrazia l’autore e l’editore per aver autorizzato la pubblicazione del presente quaderno.

 


 
 
Il ruolo dei cattolici-liberali nell'attuale quadro politico

di Rocco Buttiglione

E’ diffusa fra i cattolici la convinzione che una politica cristiana debba necessariamente guardare a sinistra perché non possiamo non farci carico del problema dei poveri. La sinistra è dalla parte dei poveri e dunque i cristiani in politica devono stare a sinistra o quanto meno guardare a sinistra.

E ‘ giusta ed accettabile questa convinzione?  

  

Intanto è certamente giusto dire che il cristiano non può non stare dalla parte dei poveri. Il problema è piuttosto se la sinistra stia davvero dalla parte dei poveri e che cosa significa in verità stare dalla parte dei poveri.

Cominciamo con questa seconda domanda: che cosa significa davvero “stare dalla parte dei poveri”. La risposta è in un certo senso intuitiva: vogliamo che ogni uomo abbia il necessario per vivere, che nessuno debba patire la fame o il freddo, che ciascuno abbia la possibilità di avere accesso alla cultura, cioè la possibilità di uno sviluppo integrale della propria personalità umana. Ci illumina a questo proposito una enciclica di Giovanni Paolo II, la Dives in Misericordia. Apparentemente non è una enciclica dedicata a dei temi sociali ma in realtà afferma un principio che tocca profondamente la nostra visione dell’ordine sociale. Potremo esprimere il suo messaggio in questo modo: c’ è qualcosa che è dovuto all’uomo per il fatto che è un uomo, a causa della sua eminente dignità. Ciò naturalmente non vuol dire che ogni uomo non debba lavorare per avere il necessario per vivere o che qualcuno abbia un diritto di vivere ozioso a spese della comunità. Nella vita vale il principio della giustizia commutativa: se vuoi qualcosa devi pagare in qualche modo ( fondamentalmente attraverso il lavoro) il suo prezzo. Ma che faremo di colui che non riesce a pagare? Come ci comporteremo con colui che ha bisogno di tutto e non ha nulla da dare in cambio del necessario per la sua vita? Possiamo limitarci a dire : “ sei un fannullone ed un fallito e ti lasciamo a morire al margine della strada?” Non possiamo a causa del valore trascendente di ogni persona umana. Dio stesso verrebbe a chiederci conto di quel suo figlio che noi abbiamo abbandonato. E cosa è dovuto a chi nel gioco del mercato e della concorrenza non ce l’ha fatta ed ha fatto fallimento? Non solo il necessario per non morire ma una seconda occasione, la possibilità di reinserirsi come membro utile ed attivo della società. 

In un’altra sua enciclica, la Laborem Exercens, Giovanni Paolo II parla del diritto dell’uomo al lavoro. Essere inserito nella società, avere accesso ai beni della terra, significa avere la possibilità di lavorare. L’uomo ha il dovere di lavorare (salvo solo il caso in cui le sue condizioni di salute non glielo consentano) ma l’uomo ha anche e proprio per questo il diritto di lavorare.

In un’altra enciclica ancora, la Sollicitudio Rei Socialis, il Papa ci parla della proprietà dei mezzi di produzione. Dio ha creato la terra e la ha consegnata agli uomini perché attraverso il lavoro abbiano cura della sua bellezza e traggano da essa il proprio sostentamento. Dio ha dato tutta la terra a tutti gli uomini. Questo non vuol dire che la terra debba essere divisa in parti eguali fra tutti gli uomini. La ricchezza della nostra economia deriva dalla divisione del lavoro, dalle opere dell’ingegno umano assai più che dalla proprietà della terra. Sarebbe  ingenuo pensare che tutta la ricchezza derivi dalla terra. Ancora più che dalla terra la ricchezza deriva dall’ingegno dell’uomo e dalle sue opere. Tuttavia rimane vero che la terra è un presupposto inevitabile di qualunque produzione. Dire che la terra è affidata a tutti gli uomini significa in realtà due cose: che nessuno può distruggere le risorse della terra ignorando i diritti delle future generazioni o anche quello dei contemporanei a vivere in un ambiente salubre e pulito e che nessuno deve essere tagliato fuori dalla grande famiglia del lavoro umano, deve rimanere privo della possibilità di guadagnarsi da vivere attraverso il lavoro.

E’ facile dimostrare che questi principi della dottrina sociale cristiana sono interamente recepiti anche nella Costituzione della Repubblica Italiana.

In cosa si differenziano questi principi da quelli della sinistra?  Non è facile dirlo perché oggi esiste nella sinistra una grande confusione e non è facile trovare nella sinistra le posizioni più diverse, comprese quelle che abbiamo indicato come proprie della dottrina sociale cristiana.

Per fare un po’ di chiarezza partiamo da Norberto Bobbio che ha indicato nella eguaglianza il punto di orientamento fondamentale della sinistra. Eguaglianza può significare la stessa cosa della solidarietà verso il povero e lo sforzo di aiutarlo a mettere in valore tutte le sue capacità uscendo dallo stato di povertà, ma di per sé eguaglianza può anche significare la invidia sociale che vuole livellare le condizioni del ricco a quelle del povero. Per una parte della sinistra la voglia di spossessare i ricchi è stata più forte di quella di migliorare le condizioni dei poveri e si è preferita una società di eguali nella povertà ad una società di diffuso benessere in cui alcuni fossero più ricchi di altri. Il fine della politica economica deve essere aumentare il benessere generale o aumentare l’eguaglianza?

Certo, il concetto di benessere generale può  essere ingannevole. E’ possibile che la ricchezza complessiva di una società aumenti ma in essa i poveri diventino più poveri ed i ricchi diventino più ricchi. Non potremmo accettare un società così. Ma cosa è male: semplicemente l’aumento della disuguaglianza ovvero il peggioramento delle condizioni di vita dei più poveri? Uno studioso americano che ha avuto molta fortuna anche ( anzi soprattutto) a sinistra, John Rawls, ha scritto che è eticamente difendibile il fatto che alcuni diventino più ricchi a condizione che nel processo nessuno diventi più povero e anzi alcuni diventino meno poveri.

La questione della  eguaglianza è strettamente connessa con quella del controllo dello stato sull’economia. Il modo migliore di accrescere la ricchezza, infatti, è in genere quello di lasciare libertà alla iniziativa economica dei cittadini. Ciascuno di sforzerà di migliorare le proprie condizioni, alcuni vi riusciranno meglio di altri, ma nel loro sforzo essi trascineranno dietro anche il resto della società. La ragione di questo sta nel fatto che la principale risorsa economica, più ancora che la terra, sta nella voglia di lavorare, nella creatività e nella inventiva degli uomini. Nel linguaggio della economia moderna questa si chiama imprenditorialità. E’ la capacità di inventare combinazioni produttive efficaci e di rischiare per realizzarle. Se il fine della politica economica è l’eguaglianza bisognerà tenere strettamente sotto controllo l’iniziativa privata, se il fine è il miglioramento delle condizioni di vita di tutti (anche se in modo diseguale) allora l’iniziativa privata andrà incoraggiata. Certo, sarà necessario richiamare gli imprenditori alla loro responsabilità sociale, perché alla fine la crescita torni davvero a beneficio di tutti, ma la loro attività dovrà essere valutata in linea di principio come positiva e dovrà essere sostenuta e stimolata dai poteri pubblici.

Abbiamo così individuato due distinzioni di principio fra la posizione della sinistra e la nostra: Noi siamo per la solidarietà , la sinistra è  tentata dalla invidia sociale. La sinistra è statalista ( per realizzare l’eguaglianza) noi siamo per la libertà di iniziativa e diamo in economia allo stato un ruolo sussidiario.

 L’eguaglianza come la sinistra è tentata di interpretarla, sta in contraddizione con l’idea di merito. Gli uomini sono tutti eguali fra loro in dignità ( è ciò che abbiamo spiegato con l’aiuto della enciclica Dives in Misericordia). Ciascuno ha però delle qualità diverse tanto da essere unico ed irripetibile. Queste qualità diverse interagiscono con l’ambiente e da esse dipende il risultato dello sforzo dell’uomo sul lavoro. Alcuni avranno un successo maggiore, altri ne avranno uno minore. A volte il successo dipenderà da qualità morali, come per esempio la capacità di sacrificio o la capacità di lavorare con altri creando una squadra efficiente. A volte la differenza dipenderà da qualità moralmente neutre ( il dono di una particolare brillantezza intellettuale). A volte si tratterà anche dell’imponderabile e della fortuna ( essere il primo ad avere un’idea economicamente produttiva) . Nella maggior parte dei casi si tratterà di una mescolanza di tutte queste cose. Mentre l’invidia sociale e la concezione di eguaglianza che ad essa si apparenta vede con straordinario sospetto queste differenze per una visione realista della persona umana esse sono l’occasione perché si manifesti la solidarietà fra le persone. Proprio perché alcuni hanno più successo di altri noi siamo continuamente rimandati a costruire una rete di solidarietà in cui chi è più forte aiuta chi è più debole. Senza dimenticare che anche in questo vige un certo principio di reciprocità. Chi oggi è più forte potrebbe domani avere lui bisogno di aiuto e chi oggi è più debole potrebbe essere domani quello che gode del maggior successo. La solidarietà presuppone la differenza del merito e del successo e carica i più forti di maggiore responsabilità sociale. Si può naturalmente anche indagare i motivi del maggior successo di alcuni rispetto ad altri. Abbiamo già accennato al fatto che questi motivi non sempre dipendono dal merito. Molto è importante la famiglia. Dalla famiglia ereditiamo dei beni materiali, un patrimonio genetico ed una educazione. Sul patrimonio genetico il legislatore non può intervenire. Sui beni materiali interviene con le tasse di successione (tenendo conto tuttavia del fatto che il desiderio di lasciare qualcosa ai propri figli è una delle molle più potenti che inducono a lavorare, darsi da fare e quindi creare occupazione e sviluppo). L’intervento più importante possibile è quello sull’educazione. Anche esso naturalmente è solo parziale. Il primo soggetto della educazione è la famiglia ed è nella famiglia che si apprendono le virtù e le attitudini fondamentali. E’ vero però che qui la scuola ha un ruolo sussidiario ma fondamentale. Permettere che i giovani che vengono da famiglie modeste possano sviluppare a pieno le loro capacità intellettuali ed entrare sul mercato del lavoro con la massima dotazione possibile di capitale intellettuale è  la cosa più importante che si possa fare per realizzare l’obiettivo della eguaglianza delle condizioni di partenza fra i cittadini.

Potremmo sintetizzare le cose dette fino ad ora nella affermazione che, in materia di politica economica, la differenza principale fra noi e la sinistra riguarda il mercato. Il mercato produce ricchezza ma al tempo stesso produce disuguaglianza. Per la sinistra il mercato è in linea di principio sospetto. Davanti al fallimento delle economie di comando (comuniste) la sinistra si è adattata ad accettare in qualche modo il mercato ma resta in fondo convinta che esso sia un male da controllare nel modo più stretto possibile. Noi pensiamo invece che il mercato sia in linea di principio positivo, anche se sappiamo che esso può generare ingiustizie ( non tutte le disuguaglianza però sono ingiustizie) e pensiamo che la politica abbia il dovere di orientare ed organizzare la solidarietà per porre rimedio ai fallimenti del mercato, per evitare che la persona umana concreta possa essere travolta e schiacciata dai meccanismi di mercato.

Come interverrà la politica per orientare il mercato?  Il fallimento più grande del mercato è la disoccupazione  di massa. E’ veramente terribile lo spettacolo di uomini che non hanno il necessario per vivere e non possono procurarselo con il loro lavoro. E’ proprio l’analisi di questo scandalo ciò che ha dato la massima forza di convincimento alla critica marxista del capitalismo. Nella economia capitalista – dice Marx- l’uomo non è un fine ma un mezzo. Il fine è l’accumulazione del capitale. Gli uomini troveranno lavoro solo se e finchè il loro lavoro sarà utile a generare plusvalore, un valore aggiunto di cui si appropriano i detentori dei mezzi di produzione. La economia di mercato, d’altro canto, è più efficiente di ogni altro tipo di economia proprio perché continuamente lo sviluppo della tecnica e l’affinamento della organizzazione del lavoro sono mirate a rendere3 possibile a un numero minore di persone di produrre ciò che prima veniva prodotto da un numero più grande. Quando in una impresa diventa possibile ottenere con il lavoro di dieci persone quello che prima si otteneva con il lavoro di dodici è intuitivo che dieci diventeranno più ricchi e due diventeranno disoccupati. Prima o poi anche i due disoccupati troveranno un nuovo lavoro,  risponderanno ai nuovi bisogni che i dieci che sono diventati più ricchi sono adesso in grado di soddisfare e tutta la società vivrà meglio. Fra il prima ed il poi c’è però uno spettro che si chiama disoccupazione. Il disoccupato scopre di non avere nessun valore per il mercato e se il mercato è tutta la società questo vuol dire che non ha nessun valore per la società.

Il lavoro è una merce che si vende e si compra liberamente ed in questa situazione è insito il rischio che anche la persona venga ridotta al rango di merce. Una merce che nessuno vuole è una merce senza valore ed un lavoratore che nessuno vuole, un disoccupato, è un uomo senza valore.

Un poeta angloamericano , T.S. Eliot ha espresso in modo amarissimo la condizione del disoccupato:

“Nessun uomo ci ha impiegati.

Con le mani in tasca

Ed il capo chino

Ce ne andiamo in giro senza meta

O rabbrividiamo in stanze senza luce.

Solo il vento si muove

Sui campi vuoti, non coltivati

Dove l’aratro è fermo, di traverso

Al solco.

In questa terra ci sarà

Una sigaretta per due uomini

Per due donne soltanto una  mezza pinta

Di birra amara ….

Il Times non da’ notizia della nostra nascita

E nemmeno della nostra morte.”

 

Marx pensava che per rimediare a questo stato di fatto fosse necessario abolire il mercato e sostituirlo con il controllo pubblico di tutti i mezzi di produzione. Il risultato è stato fallimentare: senza mercato non cresce la produttività e la società diventa più povera. Il comunismo non realizza nemmeno l’eguaglianza: i beni prodotti vengono distribuiti secondo il merito politico e l’èlite politica si appropria la parte migliore.

 

Giorgio La Pira, un grande cristiano ed un grande democristiano, si pose lo stesso problema subito dopo la seconda guerra mondiale in Italia. Davanti al problema drammatico della disoccupazione di massa egli individuò  nella economia keynesiana lo strumento per realizzare la piena occupazione. La Pira pensava che lo stato dovesse intervenire per creare il lavoro che il mercato non riusciva a creare. Lo stato interviene realizzando grandi opere pubbliche o anche dando risposta a bisogni sociali insoddisfatti (per esempio migliorando il sistema sanitario o il sistema pensionistico). Le opere pubbliche migliorano l’efficienza della economia e la spesa sociali mette più denari nelle mani della gente che li spende comprando le merci di cui ha bisogno e quindi stimolando le imprese che le producono a svilupparsi e ad assumere nuovi lavoratori. Lo stato diventa il datore di lavoro in ultima istanza, quello che attraverso le proprie decisioni di spesa (la legge finanziaria) determina la domanda di lavoro complessiva. E’ così semplice che sembra l’uovo di Colombo.  C’è però un problema: chi paga per le opere pubbliche e per la spesa sociale? In altre parole: dove prende lo stato i soldi necessari per realizzare i  posti di lavoro a