Flavio Felice, L'economia sociale di mercato. Origini, relazioni con la dottrina sociale della Chiesa e implicazioni attuali
La nostra filosofia
di Flavio Felice
Introduzione – quadro storico
Con riferimento alla teoria economica e sociale denominata “economia sociale di mercato”, essa andrebbe inquadrata nel travagliato destino che ha interessato la lunga marcia del liberalismo moderno continentale. A tal proposito, a dimostrazione di quanto quella marcia sia tutt’altro che giunta al capolinea, è di pochi giorni la pubblicazione in Italia del Rapporto Atttali, la Commissione voluta dal Presidente della Repubblica francese Nicolas Sarkozy, per il rilancio della politica economica francese. Nella Prefazione all’edizione italiana, due autorevoli membri di quella commissione: i professori Franco Bassanini e Mario Monti hanno scritto: “Il rapporto della commissione è stato apprezzato, nel suo complesso, dagli innovatori, dai liberali, dai riformisti del centrodestra e della sinistra francese, ed è stato parimenti criticato, com'era prevedibile, dai conservatori di destra e di sinistra, e dai difensori di rendite, privilegi, interessi corporativi o localistici. Confermando che gran parte delle riforme e delle innovazioni necessarie per far fronte alle sfide di questo secolo non sono etichettabili a priori come di destra o di sinistra. Anche se, forse, possono essere definite a seconda della loro coerenza con alcune scelte di fondo, nella prospettiva di un'economia sociale di mercato, che valorizza il merito, i talenti, la capacità di tutti, a partire dal diritto all'istruzione, alla sicurezza, alla salute e alla qualità ambientale”. Le parole di Bassanini e di Monti sono la dimostrazione dell’attualità di tale filone di pensiero che, paradossalmente, sembra assumere sempre maggior importanza con il passare del tempo e via via che il processo di deideologizzazione, culminato con la fine dei sistemi di socialismo reale, interessa un numero sempre maggiore di persone, di classi dirigenti e di stati.
Sotto il profilo storico, Croce riconosce che proprio in Germania, dove la teoria della libertà era stata oggetto di “grandiosi sistemi filosofici”, il liberalismo non era riuscito ad imporsi come prassi politica, al punto che non mancano studiosi che hanno fatto notare come il liberalismo tedesco sia stato caricato dalla storiografia francese, anglosassone ed anche da quella tedesca di tutti i mali della storia patria. Scrive a tal proposito Croce “la scarsa e dubbia tradizione di libertà nella vita germanica, la poca vivezza nel sentimento di essa e la disposizione alla sudditanza la lasciavano schiacciare sotto l’idea dello Stato, una sorta di astrazione personificata con attributi e atteggiamenti da nome giudaico”.
In questo contesto si colloca il tentativo di Ludwig von Mises di scardinare il blocco politico, economico, sociale e culturale del liberalismo germanico, quando nel 1919 pubblica Nation, Staat und Witschaft. Un notevole contributo scientifico all’elaborazione di una teoria del liberalismo che lo allontanasse dalle tentazioni nazional-socialiste. L’insuccesso del libro di Mises si inserisce nel clima culturale dell’epoca, “l’accentuato pluralismo culturale, sociale e politico della repubblica di Weimar”. In quel clima le forze liberali si mostrarono estremamente deboli rispetto alle tentazioni dello statalismo autoritario e di altri movimenti popolari ancora in embrione.
L’Ordoliberalismo” – la Scuola di Friburgo“
Ad ogni modo, il fallimento editoriale di Mises, la crisi della repubblica di Weimar e l’ascesa del nazionalsocialismo non impedirono la ricerca di una via tedesca al liberalismo da parte di un gruppo di studiosi, i quali, già durante gli anni del regime nazista, si raccolsero intorno alla guida del professor Walter Eucken. Detto gruppo assunse il nome di Scuola di Friburgo e la filosofia che la ispirava venne chiamata “ordoliberalismo”, dal titolo della rivista “Ordo”, fondata da Eucken nel 1940. Decisamente più critici di Adam Smith rispetto alla fede in una spontanea armonia che sarebbe dovuta scaturire dall’opera della “mano invisibile”, gli ordoliberali, anche noti come i fautori della economia sociale di mercato (Soziale Marktwirtschaft), hanno contribuito in modo sostanziale all’evoluzione della teoria economica, ed in particolar modo a quella branca dell’economia che incontra il diritto, e del diritto che incontra l’analisi economica, avendo sostenuto l’idea che il sistema economico per esprimere al meglio le proprie funzioni produttive-allocative dovrebbe operare in conformità con una “costituzione economica” che lo Stato stesso pone in essere. Si tratta di una visione politico-economica che non ha nulla a che vedere con la pianificazione economica centralizzata o con una politica statale interventista. Per il semplice motivo che il ruolo dello Stato nell’economa sociale di mercato non è semplicemente quello di “guardiano notturno”, tipico del liberalismo del laisser-faire, bensì è quello di uno “Stato forte” che si preoccupa di contrastare l’assalto contro il funzionamento del mercato da parte dei monopoli e dei cacciatori di rendite.
Tra gli studiosi che contribuirono all’elaborazione e alla diffusione dell’ordoliberalismo possiamo annoverare economisti come Alexander Rüstov e Wilhelm Röpke e giuristi come Hans Grossman-Dörth e Franz Böhm; questi ultimi condirettori insieme ad Eucken della rivista “Ordo”.
Potremmo sintetizzare il contenuto della teoria politico-economica ordoliberale nell’affermazione che gli autori della Scuola di Friburgo riconoscevano il ruolo e la funzione dello stato e nel contempo erano strenui avversari di ogni forma di dirigismo. Intendiamo dire che per la teoria ordoliberale il mercato è un sistema di relazioni che necessita di essere organizzato giuridicamente dallo stato e che lo stato non dovrebbe in alcun modo modificare i risultati che provengono dai processi di mercato. In questa prospettiva, gli ordoliberali, nell’ambito delle politiche economiche internazionali, si espressero a favore delle liberalizzazioni degli scambi e, di conseguenza, avversarono tutte quelle politiche creditizie e fiscali che a loro avviso avrebbero potuto incentivare le concentrazioni di capitale. Riguardo alla politica economica interna, si mostrarono estremamente scettici nei confronti dell’interventismo di stato nel campo sociale ed evidenziarono gli effetti deresponsabilizzanti sulla condotta individuale di un atteggiamento paternalistico da parte dello stato.
La Scuola di Friburgo parte dall’ipotesi che “l’ordine di mercato è un ordine costituzionale, cioè un ordine caratterizzato da un quadro istituzionale che, come tale, è questione di scelte costituzionali (esplicite o implicite). È una Scuola i cui rappresentanti suppongono che i processi di mercato funzioneranno bene o male in ragione della natura del quadro giuridico e istituzionale all’interno del quale essi si situano, e che la questione di sapere quali regole debbano o non debbano figurare in questo quadro è un affare di scelte istituzionali tenendo conto dei vantaggi rispettivi di ciascuna delle scelte possibili”.
Il contributo più originale dell’“ordoliberalismo” è stato di aver aggredito le problematiche del mercato concorrenziale a partire da un approccio istituzionale. Gli “ordoliberali” hanno colto l’idea che l’ordine concorrenziale è di per sé un “bene pubblico” e in quanto tale andrebbe tutelato. La scuola di Friburgo ci aiuta a comprendere che esiste una dimensione istituzionale nel paradigma liberale, dimensione negata o, quanto meno, assente in gran parte della letteratura liberale di matrice libertaria, accecata dall’idea che possa esistere un “mercato non intralciato”. Il programma di ricerca degli “ordoliberali” ha incentrato l’attenzione sul fatto che l’idea liberale di una società libera è un’idea costituzionale, che necessita di una formalizzazione costituzionale.
Tale prospettiva costituzionalista relativa al mercato – insiste Vanberg – “avvicina la tradizione di ricerca della Scuola di Friburgo al programma di ricerca in economia politica istituzionale di recente elaborato da James Buchanan”. Il premio Nobel per l’Economia ha universalizzato l’ideale liberale di cooperazione volontaria, trasferendolo dall’ambito delle scelte di mercato a quello delle scelte istituzionali, mostrando “come il paradigma liberale classico, tradizionalmente applicato alla libertà di scelta sui mercati possa venir esteso alla libertà di scelta delle istituzioni, Così facendo, Buchanan ha completato su un punto capitale i suoi predecessori della Scuola di Friburgo”.
L’umanesimo liberale – Wilhelm Röpke
È opinione diffusa presso gli storici che alla base del cosiddetto “miracolo economico” tedesco ci sia la scelta di Erhard di promuovere, contro il volere delle truppe di occupazione angloamericane, la liberalizzazione dei prezzi.
Tra gli autori che hanno maggiormente contribuito all’elaborazione teorica dell’economia sociale di mercato, troviamo indubbiamente Wilhelm Röpke. Con Röpke, secondo la terminologia che fu di Oppenheimer ed in parte di Erhard, la dottrina economico-sociale della Scuola di Friburgo assunse la collocazione di “terza via”, tra un liberalismo nella versione del laissez faire e il collettivismo socialista. La “terza via” di Röpke condurrebbe ad un’economia imprenditoriale basata sul “libero mercato” e non sul “mero capitalismo”, che, per il nostro autore, si distingue dal libero mercato per la sua tendenza – no necessità – a risolversi in meccanismi anticoncorrenziali, favorendo la nascita di monopoli, di cartelli e l’abuso di posizione dominante. Per questa ragione, il liberalismo di Röpke ammette l’intervento pubblico, a condizione che sia “conforme” alle leggi di mercato, non sopprimendone l’autonomia. Prevede, altresì, una “politica strutturale”, in grado di assicurare la conformità del sistema economico con i fini dell’organizzazione sociale e politica.
Con particolare riferimento alla riflessione socio-economica, lo specifico apporto di Wilhelm Röpke è consistito nel tentativo di elaborare una nuova teoria dell’ordinamento sociale, il cui sistema prese il nome di Ordotheorie o Ordoliberalismus, e più tardi venne chiamato “economia sociale di mercato”. Primogeniture a parte, “Con l'espressione ‘economia sociale di mercato’ si vuole caratterizzare una economia di mercato che soddisfi anche le esigenze di giustizia. In definitiva, Röpke considerava l’economia di mercato una condizione necessaria per lo sviluppo di una società che fosse degna dell’uomo, che in forza della libera iniziativa sviluppasse le attitudini proprie di ciascuna persona, che rendesse possibile lo sviluppo economico integrale, di un uomo a tutto tondo. U breve, un sistema economico che necessariamente deve fare i conti con alcuni “indispensabili meccanismi”, che rappresentano nel contempo gli “attributi” e le “ragioni” dell’“economia di mercato”. Si tratta della personale aspirazione al profitto; del perseguimento dei propri fini, un’attitudine che richiede la promozione della libertà; della concorrenza tra differenti ed alternative idee e strategie imprenditoriali; del diritto alla proprietà privata; della funzione imprenditoriale come processo creativo; del reddito derivante dall’uso imprenditoriale dei capitali; della speculazione, intesa come processo di scoperta esposto al rischio di un futuro incerto. Per Röpke, chi opera per una società libera non può non sostenere l’economia di mercato e, di conseguenza, non può non accettare tali strumenti.
I punti programmatici fondamentali dell'economia sociale di mercato che, almeno nella versione dei suoi padri fondatori, intende essere un'economia di mercato che si attiene a “condizioni quadro”, si possono sintetizzare nel seguenti argomenti: un severo ordinamento monetario; un credito conforme alle norme di concorrenza; la regolamentazione della concorrenza per scongiurare la formazione di monopoli; una politica tributaria neutrale rispetto alla concorrenza; una politica che eviti sovvenzioni che alterino la concorrenza; la protezione dell'ambiente, l'ordinamento territoriale; la protezione dei consumatori da truffe negli atti d'acquisto. In definitiva, i sostenitori dell’economia sociale di mercato furono strenui critici tanto della concentrazione del potere economico e politico, quanto dello sfrenato antagonismo e l’esasperata frammentazione degli interessi. La lotta di Röpke si giocò su due fronti: “contro il collettivismo” e “contro il liberalismo bisognoso di una fondamentale revisione”.
Sulla base di quanto affermato, ne deduciamo che per i fautori dell’economia sociale di mercato, ed in particolare per Röpke, esisterebbe intervento statale ed intervento statale , un intervento coerente con la “soluzione hobbesiana” che sfocia in forme più o meno burocratiche di “paternalismo di stato” ed un intervento, coerente con il principio di sussidiarietà orizzontale, oltre che verticale, che chiama in causa il dinamismo spontaneo dei corpi intermedi, i quali danno forma e sostanza alla società civile. Ne consegue che per Röpke non tutti i programmi statali sono identici. Il modello di welfare society ispirato al principio di sussidiarietà incontra l’analisi compiuta dagli autori dell’economia sociale di mercato sul terreno dei cosiddetti “interventi conformi”. È stato A. Röstow a coniare la formula apparentemente ossimorica di “interventismo liberale”, in quanto orientato da due criteri definiti “decisivi” dalla stesso Röpke: la distinzione tra “interventi conservativi” e “interventi di adeguamento”. Il secondo criterio – propriamente röpkiano – riguarda il grado di conformità dell’intervento alla natura dell’ordine economico. L’ordine economico al quale Röpke pensava era stato delineato dallo stesso autore in Civitas humana nei seguenti punti: 1. Costituzione di un vero ordine di concorrenza (politica antimonopolistica); 2. politica economica positiva (contro il laissez faire), così declinata: a. politica di cornice; b. politica di mercato (interventismo liberale); c. interventi di adeguamento contro interventi di conservazione; d. interventi conformi contro interventi non conformi; 3. politica di struttura economico-sociale (adeguamento, decentramento, “umanesimo economico”); 4. politica sociale.
Rileviamo che per Röpke, “conforme” non è sinonimo di “raccomandabile”. Egli intende per “conforme” quegli interventi dello stato che non sopprimono la “meccanica dei prezzi”, e “l’autogoverno del mercato”, ma che al contrario si inseriscono in esso, offrendosi come “nuovi dati”, e che possono essere assimilati dallo stesso mercato. Non conformi saranno quegli interventi che distruggono la meccanica dei prezzi, sostituendola con “un ordine economico programmatico cioè collettivo”. La distinzione di Röpke tra interventi conformi e interventi non conformi sposta l’attenzione da un criterio meramente quantitativo ad uno di tipo qualitativo, ciò significa che in linea di principio non si pone alcun limite quantitativo all’intervento dello stato, ma che si escludono in modo assoluto alcuni tipi: “Noi sentiamo vivo il bisogno di superare il puro criterio quantitativo e ricercare una linea divisoria nella ‘qualità’ dell’intervento stesso”. Il carattere conforme di un intervento non è ancora sufficiente a renderlo raccomandabile. Secondo Röpke, questi interventi dovrebbero essere “ben dosati e studiati”. Resta l’importanza della distinzione conforme/non conforme in quanto evidenzia quali interventi sono per loro natura distruttivi dell’economia di mercato e quali, se ben dosati e studiati, possono essere assorbiti dal mercato e migliorarne il funzionamento dello stesso. Esempi di interventi conformi sono la svalutazione monetaria e la politica dei dazi protettivi, mentre esempi di interventi non conformi sono la calmierazione dei fitti, il controllo dei cambi e il contingentamento delle importazioni. Questi ultimi distruggerebbero il meccanismo che regola la formazione dei prezzi.
Il secondo pilastro sul quale poggia la teoria economica di Röpke è la distinzione tra interventi di conservazione e interventi di adeguamento ovvero di assestamento. Come nel caso della distinzione tra interventi conformi e non conformi, anche in merito a questa seconda distinzione, Röpke intende andare oltre i dogmi del laissez-faire e del tradizionale interventismo, tesi a mantenere inalterati gli assetti economici. Contro coloro che pretendono l’assoluta astensione dello stato di fronte alle crisi di assestamento del mercato e contro coloro che considerano l’intervento dello stato uno strumento per proteggere dall’estinzione aziende improduttive, Röpke propone la sua “terza via”: “non nel ‘laissez-faire’ e non nell’‘intervento conservativo’ […]. In luogo di controbattere la tendenza verso un nuovo equilibrio, ricorrendo a sovvenzioni e simili, come nel caso dell’‘intervento conservativo’, l’‘intervento di assestamento’ vuole accelerare e facilitare il raggiungimento di questo equilibrio, allo scopo di evitare perdite e difficoltà o di limitare al minimo possibile. Un tale intervento […] ha in comune col principio del laissez-faire la meta finale, ma questa deve essere conseguita con la collaborazione di tutti coloro che non sono colpiti […]. Anziché lasciare al ramo di produzione costretto a trasformarsi – come faceva il vecchio liberalismo – la ricerca di nuove strade, l’interventismo mirante all’assestamento vuole occuparsene con piani di trasformazione, crediti, cambiamenti di indirizzo e altri mezzi congrui”. Tenendo ferma l’idea che l’economia liberista è quella nella quale ciò che conta è la forza economica dei privati e l’economia collettivista è quella ove conta la forza dell’economia collettiva, l’economia sociale di mercato le esclude entrambe ed intravede nella forza equilibratrice delle regole, ossia, della costituzione economica, lo strumento per garantire che il principio di concorrenza non ceda alla brama dei privati ovvero alla brama onnivora del pubblico.
Il personalismo liberale di Röpke
I sostenitori della Soziale Marktwirtschaft tedesca impararono presto l’amara lezione impartita dalla veloce salita al potere di Hitler, e fecero propri un principio fondamentale dell’allora dottrina sociale della Chiesa, e più precisamente la nozione di giustizia sociale: prevenire il formarsi di monopoli e garantire l’esigenza di un ampio numero di aziende di medie dimensioni. Ben prima che la seconda guerra mondiale finisse, un gruppo di economisti, giuristi, sociologi e filosofi tedeschi cominciarono a pensare concretamente ad un possibile novus ordo; un ordine che avrebbe dovuto rimpiazzare il nazismo. Compresero con lucidità teorica che per ricostruire una società umana avrebbero dovuto pensare alla ragioni di un nuovo ordine politico, un nuovo ordine economico e un nuovo ordine morale-culturale.
“Che cos’è il liberalismo?”, si domanda il nostro autore. “Esso è umanistico. Ciò significa: esso parte dalla premessa che la natura dell’uomo è capace di bene e che si compie soltanto nella comunità, che la sua destinazione tende al di sopra della sua esistenza materiale e che siamo debitori di rispetto ad ogni singolo, in quanto uomo nella sua unicità, che ci vieta di abbassarlo a semplice mezzo. Esso è perciò individualistico oppure, se si preferisce, personalistico”. Dalla definizione di Röpke emerge una nozione di liberalismo che lo sgancia da un’idea dogmatica e rigida dello stesso, evidenziando i connotati di un pensiero umanistico, in quanto non condivide né l’idea pessimistica hobbesiana di un uomo per natura egoista, né quella ottimistica di Rousseau. Il liberalismo di Röpke fa proprio il principio caro alla tradizione dell’antiperfettismo e del realismo cristiano, di Agostino, di Pascal, di Rosmini, di Sturzo, fino ad arrivare a Giovanni Palo II, per il quale l’uomo, benché tenda verso il bene è pur sempre capace di male. Esso è personalistico, poiché “in conformità alla dottrina cristiana, per cui ogni anima umana è immediatamente dinanzi a Dio e rientra in lui come un tutto, la realtà ultima è la singola persona umana non già la società, per quanto l’uomo possa trovare il proprio adempimento soltanto nella comunità”. Esso, inoltre, è antiautoritario, rendendo a Cesare quello che è di Cesare, ma riservando a Dio ciò che qualifica il suo rapporto con l’Assoluto: per il cristianesimo è la coscienza individuale che giudica il potere e non viceversa; esso, dunque, rifugge da ogni forma di nazionalismo, razzismo e imperialismo; in breve, è universale. Allora, il liberale per Röpke è “l’avvocato della divisione dei poteri, del federalismo, della libertà comunale, delle sfere indipendenti dello Stato, dei ‘corps intermédiaires’ (Montesquieu), della libertà spirituale, della proprietà come forma normale dell’esistenza economica dell’uomo, della decentralizzazione economica e sociale, del piccolo e del medio, della gara economica e spirituale, dei piccoli stati, della famiglia, dell’universalità della Chiesa e dell’articolazione”.
Per queste ragioni Röpke non condivide l’idea che si possa distinguere tra liberalismo, che disegna l’ambito politico e culturale, e liberismo, che delinea i confini dell’economico. Né tanto meno condivide l’idea che possa resistere a lungo un sistema che non coniughi la libera economia di mercato con istituzioni politiche liberali. In un testo che riecheggia tanto l’influenza di economisti quali Luigi Einaudi e F.A.v. Hayek, quanto quella di uno scienziato politico come Luigi Sturzo, per il quale la “libertà è integrale individuale e indivisibile”, il nostro scrive “venendo meno la libertà economica – la quale si sostanzia non solo nella libertà dei mercati, ma anche nella proprietà privata – la libertà spirituale e politica perde le sue vere basi”.
In questa prospettiva andrebbe considerato anche il suo profondo convincimento in ordine alla contiguità ideale tra liberalismo e cristianesimo. In uno dei suoi scritti più celebri afferma: “il liberalismo non è [...] nella sua essenza abbandono del Cristianesimo, bensì il suo legittimo figlio spirituale, e soltanto una straordinaria riduzione delle prospettive storiche può indurre a scambiare il liberalismo con il libertinismo. Esso incarna piuttosto nel campo della filosofia sociale quanto di meglio ci hanno potuto tramandare tre millenni del pensiero occidentale, l’idea di umanità, il diritto di natura, la cultura della persona e il senso dell’universalità”. Per Röpke, l’eredità spirituale che il cristianesimo ha tramandato al liberalismo è rappresentata dalla difesa della dignità di ogni singola persona umana contro tutte le forme di statalismo. Il fatto che esistano correnti di pensiero che mettono in discussione tale eredità spirituale, sostenendo, sul versante religioso, l’incompatibilità del cristianesimo con il liberalismo e, sul versante laico, l’incompatibilità delle istituzioni liberali con la fede cristiana, sarebbe il frutto, rispettivamente, di un “moralismo ignorante” e di un “economismo ottuso”: “Un moralismo dilettantistico nell’economia nazionale è altrettanto scoraggiante quanto un economicismo moralmente indifferente, e purtroppo il primo è diffuso quanto il secondo”.