Lord Acton
La storia della libertà nell’epoca cristianaDario Antiseri, Cattolici a difesa del mercato, a cura di F. Felice, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 2005
Spostando la sede dell’Impero da Roma a Costantinopoli, Costantino pose nella piazza del mercato della nuova capitale una colonna di porfido originaria dell’Egitto, sulla quale viene narrata una storia bizzarra: che in una cripta al di sotto della colonna egli avesse sepolto i sette simboli segreti dello Stato romano, piantonati dalle vergini del tempio di Vesta, insieme ad un fuoco perpetuo. Si narra, inoltre, che sulla cima avesse fatto porre una statua di Apollo che rappresentava se stesso, che conservasse al suo interno un frammento di Croce; e che l’avesse coronata con un diadema costruita con i chiodi utilizzati per la Crocifissione, che sua madre era convinta di aver trovato a Gerusalemme. La colonna è ancora lì e rappresenta il monumento di significativo che simboleggia la conversione dell’Impero. Invero, il fatto che venissero usati i chiodi che straziarono il corpo del Cristo per ornare un idolo dei Gentili che assumeva il nome dell’imperatore regnate, indica il ruolo che si intendeva assegnare al cristianesimo all’interno della struttura imperiale di Costantino. Il tentativo di Diocleziano di trasformare il governo di Roma in un dispotismo di matrice orientale era stata la causa dell’ultima e più crudele persecuzione dei cristiani. Costantino, convertitosi al cristianesimo, non aveva alcuna intenzione di rinunciare al progetto politico di Diocleziano né di resistere alla seduzione del potere arbitrario, quanto piuttosto intendeva consolidare il proprio trono servendosi della religione che aveva meravigliato il mondo intero per la sua forza e la sua resistenza. Per raggiungere un simile obiettivo egli stabilì che la sede del proprio governo fosse ad Oriente, nominando egli stesso un Patriarca. Nessuno consigliò Costantino che così facendo, sostenendo la religione cristiana, si sarebbe legato le mani, rinunciando alle prerogative dei Cesari. In quanto promotore e difensore della libertà e della supremazia della Chiesa, ci si rivolgeva a lui come sentinella della sua stessa unità. Egli accetto una simile responsabilità, e le divisioni che con il tempo emersero tra i cristiani avrebbero offerto ai suoi successori l’occasione per estendere le proprie competenze, prevenendo ogni tentativo di limitare le ambizioni e le risorse del potere imperiale. Costantino affermò che la sua volontà equivaleva ad un canone della Chiesa e per Giustiniano il popolo ramano aveva finito per trasferire formalmente la pienezza del proprio potere, di conseguenza, tutto ciò che era gradito al sovrano, qualora fosse espresso con editto o con lettera, acquistava forza di legge. Persino durante l’epoca problematica della conversione, l’Impero utilizzava la raffinatezza della propria civiltà, la saggezza ereditata dai sapienti dell’antichità la ragionevolezza e la finezza del diritto romano, nonché l’intera eredità della cultura ebraica e del mondo pagano e cristiano per rappresentare la Chiesa come una dorata stampella dell’assolutismo imperiale. Dunque, né un’illuminata filosofia, né la saggezza di Roma e neppure la fede e le virtù dei cristiani poterono contrapporsi all’incorreggibile tradizione dell’antichità. Mancava ancora qualcosa, nonostante le innumerevoli doti di intelligenza e di esperienza: mancava ancora una disposizione all’autogoverno e all’autocontrollo, virtù che si sviluppano nel tessuto vitale di un popolo come il suo linguaggio e cresce con esso. Tale elemento vitale, che secoli di guerre, anarchia ed oppressione avevano fatto deperire in quei paesi ancora ricolmi del superbo manto della civiltà antica, sarebbe stato posto sul terreno della cristianità dalla corrente vivificante delle migrazioni che avrebbero sconfitto l’Impero d’Occidente. All’apice del loro potere, i romani conobbero un popolo che non aveva rinunciato alla propria libertà per affidarla ad un monarca: ed il più sublime scrittore dell’impero si occupò di esso, con la vaga e rassegnata sensazione che nel futuro fossero le istituzioni di quei barbari ad avere la meglio, in quanto non ancora succubi del dispotismo. Nei casi in cui essi avevano dei re, questi non presiedevano i consigli, in molti casi erano eletti e capitava pure che fossero deposti; un giuramento li vincolava ad agire in conformità con la volontà generale. La loro autorità diveniva autentica soltanto in caso di guerra. Il primordiale repubblicanesimo di questi popoli che vedeva nella monarchia un’evenienza soltanto occasionale e che faceva leva sulla sovranità collettiva di tutti gli uomini liberi – sulla superiorità del potere costituente su tutti i poteri costituiti – sarebbe all’origine del governo parlamentare. La politica statale era estremamente circoscritta e limitata e, nonostante fosse il capo dello Stato, il re si circondava di persone a lui fedeli ed unite dal legami personali e politici. La disubbidienza o la ribellione da parte dei suoi subalterni non era in alcun modo tollerata, al pari di quella di una moglie, dei figli o di un soldato, al punto che ci si attendeva che, su ordine del proprio capo, un uomo uccidesse anche suo padre. Ne consegue che tali comunità teutoniche tolleravano un’indipendenza dal governo che metteva in serio pericolo la tenuta della stessa società, oltre a contemplare una dipendenza personale estremamente rischiosa per la libertà. Un simile sistema risultava favorevole alle corporazioni, ma non garantiva alcuna sicurezza agli individui. Se da un lato lo Stato non poteva facilmente opprimere i suoi sudditi, dall’altro non era in grado di proteggerli. Un primo effetto della grande migrazione delle popolazioni teutoniche nelle regioni civilizzate da Roma fu quello di far arretrare l’Europa di molti secoli, relegandola ad una condizione appena superiore di quella dalla quale Salomone aveva sollevato le istituzioni di Atene. Mentre i greci riuscirono a salvaguardare con grande cura la letteratura, le arti e la scienza dell’era antica, insieme a tutti i monumenti della prima cristianità, al punto che i frammenti che sono giunti fino a noi non riescono neppure minimamente a fornirci un’idea adeguata, e mentre perfino i contadini bulgari conoscevano rigo per rigo il Vangelo, l’Europa occidentale era sottomessa al giogo di padroni il più istruito dei quali non sapeva neppure scrivere il proprio nome. Per ben cinque secoli la facoltà del ragionamento esatto e l’osservazione puntale si estinsero ed anche le scienze più utili alla società come la medicina e la geometria caddero nell’oblio, finché gli uomini dotti dell’occidente non tornarono umilmente a scuola dai maestri arabi. Perché potesse emergere un qualche ordine dalle macerie, perché potesse nascere una nuova civiltà dal crogiuolo di razze diverse ed ostili ed unificate in un solo popolo, più che la libertà era necessaria la forza. Così si spiega come mai per secoli il progresso fu legato a personalità come Clodoveo, Carlo Magno e Guglielmo il Normanno, i quali erano risoluti prepotenti e capaci di farsi obbedire. Lo spirito di ancestrale paganesimo che aveva impregnato la società antica non poteva essere esorcizzare che dal combinato disposto dell’autorità della Chiesa e dello Stato; la convinzione diffusa che la loro unione fosse necessaria diede vita al dispotismo giacobino. Gli ecclesiastici dell’impero che non potevano neppure immaginare che il cristianesimo si sarebbe diffuso oltre i confini imperiali insistevano nell’affermare che non è lo Stato ad essere nella Chiesa, bensì la Chiesa nello Stato. Questa dottrina era stata da poco formulata che il repentino crollo dell’Impero d’Occidente aprì orizzonti più ampi; Salviano, un prete di Marsiglia, sostenne che le virtù sociali, le quali stavano decadendo presso i civili rimani, esistevano nella loro purezza e con migliori prospettive presso gli invasori pagani. I barbari furono facilmente convertiti e la loro conversione normalmente seguiva quella dei loro re. Il cristianesimo che sin dai suoi albori si era rivolto alle masse, facendo affidamento sul principio di libertà, ora si appellava ai governanti e faceva valere il suo peso nella gerarchia del potere. I barbari, i quali non possedevano libri, non avevano una conoscenza laica, alcuna istruzione, se non quella impartita dalle scuole religiose, e che dei principi religiosi avevano acquisito solo alcuni rudimenti, guardavano con una certa ammirazione puerile coloro che discettavano di Sacre Scritture, di Cicerone, Sant’Agostino; oltretutto, nel loro piccolo mondo delle idee, la Chiesa era vista come qualcosa di infinitamente più esteso, più forte e più sacro dei loro stati di recente formazione. Il clero forni gli strumenti per mantenere i governi ed in cambio fu esentato dal pagamento delle tasse, dalla giurisdizione, dalla magistratura civile e dall’amministrazione politica. Con esso si apprese che l’attribuzione del potere è di natura elettiva e i concili di Toledo offrirono la struttura del sistema parlamentare spagnolo, di gran lunga il più antico del mondo. Tuttavia, la monarchia dei Goti in Spagna e dei Sassoni in Inghilterra, ed in entrambi i casi i nobili e i prelati circondavano il trono, pur conservando le vestigia di istituzioni libere, si estinse; mentre il popolo che prosperò oscurando gli altri fu quello dei franchi, senza alcuna nobiltà di nascita, la cui legge di successione alla Corona fu un millennio motivo di una immutata superstizione e sotto il cui potere il sistema feudale fu sviluppato all’estremo. Il feudalesimo fece della terra la misura e la dominatrice di qualsiasi cosa. Non avendo altra fonte di reddito che la coltivazione del suolo, gli uomini dipendevano in tutto e per tutto da coloro che possedevano la terra; dunque, il potere di questi ultimi divenne così rilevante sulla libertà dei sudditi e sull' autorità stessa dello Stato. Recitava la massima francese che ogni barone è sovrano nella sua proprietà. I popoli dell'Occidente erano stretti tra le tirannie concorrenti di notabili locali e monarchi assoluti, quando apparve sulla scena una forza che si dimostrò per un certo periodo superiore tanto ai vassalli quanto ai loro signori. Ai tempi della Conquista, quando i Normanni distrussero le libertà inglesi, le rudimentali istituzioni ereditate dai Sassoni, dai Goti e dai Franchi provenienti dalle foreste della Germania erano in declino, e il nuovo fattore del governo popolare, che in seguito sarebbe stato introdotto grazie alla crescita delle città e alla formazione di una classe media, era ancora sconosciuto. La sola autorità in grado di resistere alla gerarchia feudale era quella ecclesiastica; le due gerarchie entrarono in collisione quando lo sviluppo del feudalesimo minacciò l’autonomia della Chiesa subordinando i prelati a quella forma di dipendenza personale dai re che era caratteristica dello Stato teutonico. Dobbiamo a quel conflitto, durato quattrocento anni, il sorgere della libertà civile. Se la Chiesa avesse continuato a sostenere i troni dei re che essa consacrava, o se la lotta fosse terminata rapidamente con un'inequivocabile vittoria, l'intera Europa sarebbe stata soffocata da un dispotismo di tipo moscovita o bizantino. Infatti l'obiettivo di entrambe le parti in causa era il potere assoluto. Ma per quanto la libertà non fosse il fine in vista del quale esse combattevano, essa fu il mezzo attraverso il quale il potere temporale e quello spirituale chiamarono i popoli a loro sostegno. Come conseguenza delle alterne fasi del conflitto le città d'Italia e di Germania ottennero le loro franchigie, la Francia i suoi Stati Generali e l'Inghilterra il suo parlamento: e finché il conflitto durò impedì 1'affermazione del diritto divino dei, sovrani. Si tendeva a considerare la corona come una specie proprietà privata ereditata all'interno della famiglia che la possedeva secondo le leggi riguardanti il diritto di proprietà. Ma l'autorità della religione, e del papato in particolare, accreditava le teorie di chi negava ai re un titolo irrevocabile a governare. In Francia ciò che in seguito venne chiamata la teoria gallicana sosteneva che la casa regnante fosse al di sopra della legge, e che lo scettro non potesse essere ad essa negato finché esistessero ancora principi discendenti dal sangue reale di San Luigi. Tuttavia, in altri paesi lo stesso giuramento di fedeltà del re testimoniava che il titolo di sovrano era condizionato, e che poteva essere conservato soltanto fin quando perdurasse un buon comportamento; e fu in conformità al diritto pubblico al quale tutti i monarchi erano ritenuti soggetti che re Giovanni fu dichiarato ribelle contro i baroni, o che coloro i quali innalzarono Edoardo III al trono da cui avevano deposto suo padre invocarono il motto Vox populi vox Dei. In seguito questa teoria del diritto divino dei popoli ad innalzare e deporre principi, dopo aver ottenuto la sanzione dell'autorità religiosa, fu supportata da basi più solide, divenendo sufficientemente forte da resistere sia alla Chiesa che ai re. Nel conflitto tra la casata dei Bruce e quella dei Plantageneti per il dominio sulla Scozia e sull'Irlanda, le pretese inglesi furono appoggiate dall' autorità di Roma. Ma Irlandesi e Scozzesi la rifiutarono, e il documento con cui il parlamento scozzese informava il papa della loro decisione dimostra quanto profondamente la dottrina popolare avesse piantato radici. Riferendosi a Robert Bruce, essi dicono: "La Divina Provvidenza, le leggi e i costumi della nazione, che noi difenderemo fino alla morte, e la decisione del popolo, lo hanno reso nostro re. Se egli mai tradisse i suoi princìpi, e consentisse che noi fossimo assoggettati al re d'Inghilterra, noi lo tratteremmo come un nemico, sovvertitore dei nostri e dei suoi diritti, ed eleggeremmo un altro al suo posto. Noi non ci curiamo della gloria o della ricchezza, ma di quella libertà alla quale nessun vero uomo rinuncerà se non insieme alla propria vita". Simile concezione della monarchia era naturale tra uomini abituati a veder costantemente in lotta contro i loro sovrani quanti da loro erano più rispettati. Gregorio VII aveva dato impulso al disprezzo verso le autorità civili sostenendo che esse sono unicamente opera del Dio; e già nella sua epoca entrambe le parti in causa furono spinte a riconoscere la sovranità del popolo, e si appellarono ad essa come alla fonte immediata del potere. Due secoli più tardi questa teoria politica aveva raggiunto un grado maggiore di forza e di definizione presso i Guelfi, che erano il partito della Chiesa, e presso i Ghibellini, il partito dell’Impero. Ecco i sentimenti del più celebrato tra tutti gli autori guelfi: "Un re che venga meno ai propri doveri per ciò stesso pregiudica la propria pretesa ad essere obbedito. Non è una ribellione a deporlo, perché egli stesso è un ribelle che il popolo ha il diritto di deporre. Ma è meglio ancora emendare il suo potere in modo che egli non abbia la possibilità di abusarne: a tale scopo, il popolo intero dovrebbe avere esso stesso una parte nel governare se stesso: la costituzione dovrebbe unire una monarchia limitata ed elettiva con un'aristocrazia del merito, e una misura di democrazia tale da consentire a tutti i ceti di accedere al governo per elezione popolare. Nessun governo ha diritto di imporre tasse oltre il limite stabilito dal popolo. Non ci sarà per noi sicurezza finché dipenderemo dalla volontà di un altro uomo". Questo linguaggio, che contiene la prima esposizione della teoria Whig della rivoluzione, è tratto dalle opere di S. Tommaso d'Aquino, del quale Lord Bacon ebbe adire che tra tutti i teologi scolastici aveva il cuore più grande. E interessante notare che egli scriveva proprio nel momento in cui Simon de Montfort convocava i Comuni, e che le teorie politiche del frate napoletano erano state scritte secoli prima di quelle dello statista inglese. Il miglior autore di parte ghibellina fu Marsilio da Padova. "Le leggi", egli scriveva, "derivano la loro autorità dal popolo, e non sono valide senza il suo consenso. Dal momento che l'intero è più grande delle sue parti, sarebbe sbagliato che una sola parte legiferasse in luogo dell'intero; e dal momento che gli uomini sono eguali, sarebbe sbagliato che chicchessia venisse vincolato da leggi prodotte da un altro. Ma quando tutti gli uomini obbediscono a leggi alle quali tutti gli uomini hanno dato il loro assenso, essi in realtà si governano da soli. Il monarca, che viene istituito dal legislativo per eseguire la sua volontà, deve essere armato di una forza sufficiente a costringere gli individui, ma non a dominare sulla maggioranza del popolo. Egli è responsabile nei confronti del popolo e sottoposto alla legge; il popolo che lo nomina e gli assegna i suoi doveri deve controllare che egli obbedisca alla costituzione, e deve deporlo se egli la infrange. I diritti dei cittadini non dipendono dalla fede che essi professano, e nessuno può essere punito a causa della propria religione". Questo autore, che per certi aspetti vedeva più lontano di Locke e di Montesquieu e che a proposito della sovranità del popolo, del governo rappresentativo, della superiorità del legislativo sull' esecutivo e della libertà di coscienza aveva idee tanto chiare sui principi che avrebbero dominato il mondo moderno, visse al tempo del regno di Edoardo II, 550 anni fa. E significativo che questi due autori convergessero su tanti punti essenziali che invece sono stati da allora sempre oggetto di controversie: infatti, essi appartenevano a scuole di pensiero opposte, e ciascuno dei due avrebbe ritenuto l'altro degno di morte. Secondo S. Tommaso il papato avrebbe dovuto dominare su tutti i governi cristiani. Marsilio avrebbe voluto invece che il clero fosse sottomesso alle leggi civili, e che fosse sottoposto a restrizioni riguardo tanto alla proprietà quanto al numero. Man mano che il grande dibattito si sviluppava, molte argomentazioni gradualmente si fecero più chiare, e si svilupparono fino a divenire radicate convinzioni. Infatti questi non erano soltanto i pensieri di menti profetiche superiori rispetto a quelle dei loro contemporanei: al contrario, essi avevano buone prospettive di regolare anche il mondo della pratica. L'antico dominio dei baroni si trovava in grave crisi. L'apertura ad Est propiziata dalle Crociate aveva dato un grande stimolo all'economia. Un'ondata di persone sciamava dalle campagne nelle città, e non c'era spazio per i governi cittadini nel sistema feudale. Quando gli uomini escogitarono modi di guadagnarsi da vivere senza dipendere dalla generosità del ceto dei proprietari terrieri, questi ultimi persero molta della loro importanza, e cominciò invece ad accrescersi quella dei possessori di ricchezza mobile. La gente delle città non soltanto si liberò dal controllo dei prelati e dei baroni, ma lottò per conquistare come classe il governo dello Stato. Il XV secolo fu dominato dall' agitazione legata al conflitto tra democrazia e aristocrazia cavalleresca. Le città italiane, le più evolute per cultura e per civiltà, tracciarono la via, con costituzioni democratiche di tipo ideale e generalmente impraticabile. Gli svizzeri si liberarono del giogo austriaco. Due lunghe catene di città libere sorsero lungo la valle del Reno e il cuore della Germania. I cittadini di Parigi acquistarono una significativa influenza sul re, riformarono lo Stato e cominciarono la loro terribile serie degli esperimenti nel governo della Francia. Ma il più sano e vigoroso rigoglio di libertà municipali si ebbe, tra tutti i paesi del continente, in Belgio, che da epoche immemorabili è stato il paese più fedele al principio dell' autogoverno. Erano talmente rebuste le risorse economiche concentrate nelle città fiamminghe, così diffuso era il movimento verso la democrazia, che a lungo fu incerto se i nuovi interessi avrebbero prevalso, e se il potere dell' aristocrazia militare non si sarebbe inchinato alla ricchezza e alla cultura degli uomini che vivevano di commerci. Ma Rienzi, Marcel, Artevelde e gli altri campioni dell'acerba democrazia di quei giorni vissero e morirono invano. L'ascesa della classe media aveva svelato i bisogni, le passioni, le aspirazioni dei poveri che soffrivano ai livelli più bassi: feroci rivolte in Francia e in Inghilterra provocarono una reazione che ritardò per secoli la redistribuzione del potere, e lo spettro allarmante della rivoluzione sociale sorse sulle tracce della democrazia. I cittadini armati di Ghent furono massacrati dalla cavalleria francese; e soltanto la monarchia colse i frutti del mutamento che era in corso nelle relazioni tra le classi e accendeva le menti degli uomini. Tornando indietro di circa mille anni, al periodo che noi chiamiamo medioevo per fare un bilancio complessivo dell'opera in esso compiuta, se non prossimi alla perfezione delle sue istituzioni, almeno prossimi alla comprensione della verità politica, ecco quanto possiamo concludere: il governo rappresentativo, che era quasi sconosciuto agli antichi, era divenuto praticamente universale. I metodi di elezione erano certo rudimentali: ma il principio secondo il quale nessuna tassazione era legittima se non quando essa fosse stata approvata dalla classe che la pagava - cioè che la tassazione fosse inseparabile dalla rappresentanza - era riconosciuto, non come privilegio di alcuni paesi ma come diritto di tutti. Nessun principe al mondo, diceva Philip de Commines, può istituire l'imposta di un solo penny senza il consenso del popolo. La schiavitù era scomparsa quasi ovunque; e il potere assoluto era ritenuto ancor più intollerabile e criminale della schiavitù. Il diritto di insurrezione fu non soltanto ammesso ma esplicitamente formulato come un dovere imposto dalla religione. Persino i principi dell'Habeas Corpus Act e il sistema dell'imposta sul reddito erano già conosciuti. Il principio dominante nella politica antica era uno Stato assoluto fondato sulla schiavitù. Il risultato politico del medioevo fu un sistema di stati in cui il potere era limitato dalla rappresentanza delle classi più forti, da associazioni corporative e dal riconoscimento di doveri superiori a quelli imposti all'individuo. Rispetto alla realizzazione pratica di ciò che era giudicato come buono, c'era ancora da fare quasi tutto. Ma il grande problema di principio era stato risolto. Veniamo così alla domanda fondamentale: in che modo il XVI secolo amministrò il tesoro che il medioevo aveva saputo tramandare? Il più evidente segno dei tempi fu il declino dell'autorità religiosa che così a lungo aveva dominato. Sessant'anni erano passati dall'invenzione della stampa, e già trentamila volumi erano usciti dalle presse europee, prima che qualcuno prendesse l'iniziativa di stampare il Nuovo Testamento in greco. Nel periodo, poi, in cui ogni Stato mise in cima alle proprie preoccupazioni l'unità della fede, si arrivò a pensare che i diritti degli uomini, e i doveri che i loro simili e i loro governanti avevano nei loro confronti, variassero a seconda della religione alla quale essi appartenevano: e così la società non riconosceva le stesse obbligazioni nei confronti di un Turco o di un Giudeo, di un pagano o di un eretico, o di un adoratore del Diavolo, rispetto a quelle riconosciute ad un cristiano ortodosso. Più veniva meno l'ascendente esercitato dalla religione, più lo Stato reclamava nel proprio interesse questo privilegio di trattare i nemici di essa con criteri eccezionali: e l'idea che i fini del governo giustificano i mezzi impiegati fu elaborata sistematicamente da Machiavelli. Quest'ultimo era un politico acuto, sinceramente ansioso di spazzare via gli ostacoli ad un intelligente governo dell'Italia. Gli pareva che il più dannoso ostacolo all'intelligenza fosse la coscienza, e che non si sarebbe mai fatto l'energico uso dell' arte dello Stato che era necessario al successo di ardui progetti politici se i governi si fossero concessi il lusso di lasciarsi frenare da precetti catechistici. Alla sua audace dottrina si richiamarono nell’epoca successiva uomini dal carattere forte. Secondo loro, in tempi difficili gli uomini buoni posseggono raramente una forza pari alla loro bontà, e quindi si fanno da parte al cospetto di quanti non hanno timore alcuno. Essi notarono inoltre che la moralità pubblica è diversa da quella privata, perché nessun governo può porgere l’altra guancia o ammettere che la misericordia è preferibile alla giustizia. Tuttavia, essi non furono in grado di definire con precisione questa differenza, né di indicare con quale altro criterio si possa giudicare l’operato di una nazione, al di là del giudizio pronunciato dall’Alto che ne decreta il successo in questo mondo. La teoria di Machiavelli non avrebbe superato agevolmente la prova del regime parlamentare, perché il dibattito pubblico richiede una professione di buona fede: essa diede tuttavia un grande impulso all’assolutismo, riducendo al silenzio la coscienza di re molto religiosi, e finì per confondere il piano del bene con quello del male. Basti citare alcuni esempi: Carlo V offrì cinquemila corone per l’assassinio di un suo nemico; Ferdinando I e II, Enrico III e Luigi XIII fecero uccidere a tradimento i loro sudditi più potenti; Elisabetta e Maria Stuart tentarono di fare lo stesso l’una all’altra. Tutto ciò aprì la strada al trionfo della monarchia assoluta sullo spirito e sulle istituzioni dell’epoca: un trionfo ottenuto non attraverso singoli crimini, bensì per mezzo di una precisa filosofia del crimine e di una deviazione del senso morale così profonda che per trovarne di analoghe bisogna risalire addirittura alla riforma stoica della morale pagana. Il clero, che aveva servito in vari modi la causa della libertà durante la lunga lotta contro il feudalesimo e la schiavitù, fu assimilato agli interessi delle corti. Si era cercato di riformare la Chiesa secondo il modello dell’ordinamento costituzionale, ma i vari tentativi erano falliti, ed anzi avevano conseguito come unico risultato quello di unire la gerarchia ecclesiastica e la Corona in un fronte comune contro il sistema della divisione dei poteri. In Francia come in Spagna, in Sicilia come in Inghilterra, i monarchi più energici riuscirono a ridurre in soggezione la spiritualità: in Spagna, ad esempio, i re ripristinarono per fini propri il tribunale dell’Inquisizione, divenuto orami obsoleto, cosicché potevano contare su un potere di soggezione che li rendeva efficacemente dispotici. Nell’arco di una sola generazione tutta l’Europa fu attraversata da un cambiamento radicale: dall’anarchia dell’epoca della Guerra delle Due Rose si passò infatti all’entusiasta sottomissione, fino alla soddisfatta acquiescenza verso la tirannide che caratterizzò il regno di Enrico VIII e degli altri re del suo tempo. La situazione si stava facendo sempre più critica, quando a Wittenberg ebbe inizio la Riforma; l’aspettativa era che l’influenza di Lutero potesse arrestare l’ondata di assolutismo, dal momento che egli si contrapponeva alla stretta alleanza tra Chiesa e Stato, e gran parte del suo Paese era governato da principi ostili che erano prelati della Chiesa romana. Egli aveva, in effetti, più da temere dai nemici temporali che da quelli spirituali. I più potenti vescovi tedeschi volevano che le richieste protestanti venissero accolte, e fu lo stesso papa a sollecitare l’imperatore ai fini di una politica conciliante. Carlo V aveva però bandito Lutero e tentato di tendergli un agguato; i duchi di Baviera si prodigavano per perseguitare e mandare al rogo i suoi discepoli, mentre gli schieramenti democratici delle città si schieravano in genere dalla sua parte. Ma il suo sentimento politico più profondo era la paura della rivoluzione, e la nota con la quale i teologi guelfi avevano dichiarato superata l’obbedienza passiva dell’epoca apostolica era caratteristica di quel metodo interpretativo medioevale che egli rifiutava. Negli ultimi anni egli ridefinì la sua teoria per un breve periodo, ma la sostanza della sua dottrina politica era senza dubbio conservatrice: gli Stati luterani si caratterizzarono per un rigido immobilismo e gli scrittori luterani condannarono con fermezza la letteratura democratica emersa nel secondo periodo della Riforma. I riformatori svizzeri, dal canto loro, furono più audaci di quelli tedeschi nel mescolare la causa religiosa con quella politica. Zurigo e Ginevra erano repubbliche, e lo spirito dei loro governi influenzò profondamente sia Zwingli sia Calvino. Zwingli in realtà non si discostava di molto dalla dottrina medioevale, secondo cui se un pubblico magistrato si macchia di reato deve essere destituito: ma egli fu ucciso troppo presto perché potesse agire in profondità sul carattere politico del Protestantesimo. Calvino, per quanto si definisse repubblicano, riteneva che il popolo fosse incapace di governarsi da solo, e parlava delle assemblee popolari come di un abuso che doveva essere abolito. Egli era a favore di un’aristocrazia degli eletti, dotata di tutti i mezzi per punire non soltanto il crimine, ma anche il vizio e l’errore: pensava infatti che la severità delle leggi medioevali fosse insufficiente alle esigenze del tempo, ed era favorevole alla più irresistibile arma che i procedimenti inquisitori ponessero nelle mani del governo, cioè il diritto di sottoporre i prigionieri a torture insopportabili non perché fossero colpevoli, ma anzi proprio perché le loro colpe non potevano essere dimostrate. La sua dottrina, tuttavia, pur non essendo volta a favorire i governi popolari, era così avversa all’autorità dei monarchi dell’epoca che egli dovette ponderare l’esposizione delle proprie idee politiche nell’edizione francese dei suoi Institutes. A conti fatti, l’effetto politico diretto della Riforma fu minore di quanto si sia supposto: la maggior parte degli stati fu abbastanza forte da riuscire a tenerlo sotto controllo, e alcuni riuscirono pur con gran dispendio di energie a respingerne l’ondata. Altri, invece, furono addirittura in grado di indirizzarla in favore dei propri interessi. Soltanto il governo polacco dell’epoca lasciò che facesse il suo corso. La Scozia, dal canto suo, fu l’unico regno in cui la Riforma trionfò nonostante la resistenza dello Stato, e l’Irlanda fu l’unico Paese in cui fallì nonostante l’appoggio del governo. In quasi tutti gli altri casi, tanto i principi ad essa favorevoli quanto quelli che vi si opponevano sfruttarono lo zelo, gli allarmi e le passioni suscitate dal movimento riformatore come strumenti per accrescere il loro potere. I popoli soddisfecero tutte le prerogative richieste dai loro governanti per proteggere la loro fede, e nel periodo di maggiore intensità della crisi fu abbandonata tutta l’attenzione rivolta a tenere separati Chiesa e Stato e a prevenire la confusione tra i due poteri, che era stata il frutto di un lavoro di secoli. Furono commessi atti atroci di cui spesso la passione religiosa era lo strumento, ma la vera causa era la politica. Il fanatismo si manifesta nelle masse, ma le masse all’epoca non erano fanatiche e i crimini attribuiti ad essa erano spesso frutto di macchinazioni di freddi uomini politici. Quando il re di Francia decise di uccidere tutti i protestanti, fu convinto della necessità di questa decisione dai suoi agenti: non ci fu un moto spontaneo della popolazione in questo senso, tanto che in molte città e province i magistrati si rifiutarono di obbedire all’ordine. Le motivazioni della Corte erano tanto lontane dal puro fanatismo che la regina immediatamente intimò Elisabetta a fare lo stesso con i cattolici inglesi. Francesco I ed Enrico II mandarono al rogo un centinaio di ugonotti, ma erano convinti protettori della religione protestante in Germania. Sir Nicholas Bacon fu uno dei ministri che abolirono la celebrazione della messa in Inghilterra: tuttavia, all’arrivo dei profughi ugonotti, egli ne fu così poco lieto da ricordare al Parlamento in che modo Enrico V ad Agincourt trattò i Francesi che caddero nelle sue mani. John Knox riteneva che ogni cattolico in Scozia dovesse essere messo a morte, ma il suo consiglio non fu seguito. In tutto il periodo dei conflitti religiosi la politica svolse un ruolo fondamentale. Alla morte degli ultimi riformatori la religione, anziché emancipare le nazioni, divenne un pretesto per gli atti criminali dei despoti. Se Calvino predicava e Bellarmino teneva lezioni, era comunque Machiavelli a dominare sovrano. A fine secolo tre eventi segnarono l’inizio di una svolta storica. Il massacro di San Bartolomeo convinse gran parte dei calvinisti della legittimità della ribellione contro i tiranni: essi divennero così sostenitori della dottrina elaborata dal vescovo di Winchester e assimilata da Knox e Buchanan, attraverso i loro insegnanti a Parigi, ispirata direttamente alla scolastica medioevale. Adottata per muovere contro il re di Francia, essa fu messa in pratica assai presto anche contro il re di Spagna. I Paesi Bassi, in rivolta, dichiararono deposto Filippo II con un pronunciamento solenne e proclamarono la loro indipendenza sotto il principe d’Orange, che era stato designato suo luogotenente. Questo episodio segnò una tappa fondamentale non soltanto perché i sudditi appartenenti ad una religione avevano deposto un monarca appartenente ad un’altra (una cosa simile era già avvenuta in Scozia), ma soprattutto perché si trattò dell’affermazione di una repubblica al posto di una monarchia; inoltre, esso costrinse il diritto pubblico europeo a riconoscere l’avvenuta rivoluzione. Nello stesso periodo i cattolici francesi, ribellandosi contro Enrico III – il più disprezzabile dei tiranni – e contro il suo erede Enrico di Navarra – che, in quanto protestante, era visto con disprezzo dalla maggioranza del popolo – combatterono per gli stessi principi “con la penna e con la spada”. Numerosi furono i libri pubblicati in loro difesa nell’arco di mezzo secolo, e tra questi troviamo i maggiori trattati di diritto mai scritti. Quasi tutti, però, sono viziati dagli stessi errori che caratterizzavano la letteratura politica del Medioevo: quest’ultima, pur essendo degna di considerazione e ammirevole per la funzione che svolse in favore del progresso umano, dalla morte di San Bernardo fino alla pubblicazione dell’Utopia di Tommaso Moro non poté vantare al suo interno quasi nessun autore che non asservisse il proprio pensiero politico all’interesse del papa o a quello del re. Anche coloro che appartenevano ad un’epoca successiva alla Riforma continuarono a pensare alle leggi soltanto in quanto concernevano i cattolici o i protestanti. Knox tuonò contro il “mostruoso dominio delle donne” perché la regina era solita frequentare la celebrazione della messa, e Mariana lodò l’assassinio di Enrico IV perché il re era alleato con gli ugonotti. Infatti, la convinzione che è giusto uccidere i tiranni – diffusa tra i cristiani da Giovanni di Salisbury, il principale autore inglese del XII secolo, e confermata da Ruggero Bacone, l’inglese più illustre del XIII secolo – aveva assunto in quest’epoca un significato carico di conseguenze: nessuno concepiva la politica come uno strumento per stabilire attraverso leggi che cosa è giusto e che cosa è ingiusto, né tentava di formulare una serie di principi che fossero validi allo stesso modo sotto tutte le forme di religione. La Politica ecclesiastica di Hooker assume una posizione isolata tra questa tipologia di opere, e viene letta ancora con ammirazione da ogni persona istruita come il primo e migliore classico in prosa scritto in lingua inglese. Essa contribuì, insieme a poche altre opere, a diffondere le idee di autorità limitata e di obbedienza condizionata a partire dall’epoca in cui furono elaborate e poi ancora per generazioni di uomini liberi. Come anelli di un’unica catena, veniva colta la connessione all’interno della medesima tradizione tra la rozza violenza di Buchanan e Boucher, la lotta per le investiture, il Lungo Parlamento, San Tommaso ed Edmund Burke. Diffondere l’idea che i governi non esistono per diritto divino e che un governo arbitrario rappresenta una violazione di quello stesso diritto, era senza dubbio la medicina indicata per la malattia della quale soffriva l’Europa in quel tempo. Tuttavia, per quanto la presa di coscienza di questa verità potesse fungere da elemento di “distruzione”, non poteva però fornire un contribuito determinante al progresso e alle riforme: la resistenza alla tirannia non implicava infatti di per sé la possibilità di costituire un governo legale che si sostituisse ad essa. In altre parole, per quanto possa essere utile ed efficace l’albero di Tyburn, sarebbe tuttavia preferibile che il colpevole continui a vivere per pentirsi e cambiare vita. All’epoca non erano ancora stati individuati principi in grado di separare in politica il bene dal male e di rendere gli Stati degni di durare nel tempo. Il filosofo francese Charron fu uno di quegli uomini a cui lo spirito di fazione non fece perdere il senso morale e che non si lasciò accecare dallo zelo di una causa. In un passo tratto pressoché alla lettera da San Tommaso, egli parla della nostra subordinazione ad una legge di natura a cui ogni legislazione è tenuta a conformarsi; egli ritiene inoltre che essa possa essere individuata non attraverso la luce della religione rivelata, bensì attraverso la voce della ragione universale mediante la quale Dio illumina le coscienze degli uomini. Su tali fondamenta Grozio tracciò le linee della sua scienza politica: raccogliendo i documenti del diritto internazionale, egli andò oltre i trattati diplomatici tra le nazioni e gli interessi confessionali, alla ricerca di un principio che abbracciasse l’intera umanità. Secondo lui, infatti, i principi del diritto devono mantenere la loro validità anche qualora supponessimo che Dio non esiste. Con questa formula di per sé ambigua egli intendeva dire che i principi giuridici devono essere stabiliti indipendentemente dalla Rivelazione. Da quel momento divenne possibile fare della politica una questione di principio e di coscienza, consentendo a uomini e popoli anche molto diversi tra loro di convivere in pace nel rispetto delle norme di un diritto comune. Grozio stesso, però, non sfruttò appieno i frutti della propria scoperta, privandola egli stesso di un effetto immediato, dal momento che affermò che il diritto a regnare poteva essere goduto alla stessa stregua di un diritto di proprietà, non soggetto ad alcuna condizione. Quando invece Cumberland e Pufendorf rivelarono il vero significato della sua teoria, ogni autorità costituita e ogni interesse dominante arretrarono inorriditi. Nessuno era infatti disposto a rinunciare ai privilegi ottenuti con la forza o con l’astuzia semplicemente perché essi erano in contraddizione non già con i Dieci Comandamenti, bensì con un Codice sconosciuto, che Grozio stesso non aveva osato sviluppare e rispetto al quale non c’erano due filosofi che si trovassero d’accordo. È evidente che quanti avevano ormai compreso che la politica è una questione di coscienza, e non di potenza o di espedienti, consideravano i loro avversari come uomini senza principi. Essi intuirono che la controversia con questi ultimi sarebbe stata sempre legata alla questione morale, e che essa non si sarebbe risolta semplicemente con l’appello alle buone intenzioni. Quasi tutte le grandi personalità del XVII secolo respinsero questa innovazione. Nel XVIII, invece, due idee di Grozio (secondo le quali esistono determinate verità politiche sulla cui base ogni Stato e ogni interesse si regge o cade, e la società è tenuta insieme da una serie di contratti reali e ipotetici) divennero in altre mani la leva che sollevò il mondo. Allorché la monarchia, attraverso quella che parve una legge irresistibile, ebbe la meglio su tutti i suoi nemici e i suoi concorrenti, divenne una sorta di religione: gli antichi suoi rivali, il barone e il prelato, divennero ben presto i suoi sostenitori. Anno dopo anno, le assemblee che rappresentavano l’autogoverno delle province e delle classi privilegiate in tutto il continente si riunivano per l’ultima volta e poi si scioglievano; il popolo stesso aveva ormai imparato a venerare il trono come il costruttore della sua unità, il fautore della sua prosperità e potenza, il difensore dell’ortodossia religiosa e il valorizzatore dei meriti. I borboni, che avevano strappato la corona ad una democrazia ribelle, o gli Stuart, che erano entrati in scena come usurpatori, fecero valere la dottrina secondo cui gli Stati si costituiscono per mezzo del coraggio, della politica e di matrimoni ad hoc delle famiglie reali. Di conseguenza, il re non può che precedere il popolo, ne è l’autore piuttosto che il prodotto, e dunque regna indipendentemente dal consenso. La stessa teologia seguì il diritto divino con atteggiamento di obbedienza passiva. Nell’epoca d’oro della scienza della religione l’arcivescovo Ussher, il più colto prelato anglicano, e Bossuet, il migliore tra quelli francesi, dichiararono che la resistenza ai re è un delitto e che i regnanti possono usare legittimamente la forza anche contro la fede dei propri sudditi. Anche i filosofi sostennero i teologi: Bacon, ad esempio, affidò alle mani potenti dei re tutta la sua speranza nel progresso dell’umanità; Cartesio, dal canto suo, consigliò loro di eliminare tutti coloro che sarebbero stati in grado di resistere al loro potere. Hobbes insegnò che l’autorità ha sempre ragione e Pascal considerava assurdo riformare le leggi o contrapporre una giustizia ideale alla forza di fatto. Persino Spinoza, che era repubblicano ed ebreo, assegnò allo Stato il dominio assoluto sulla religione. La monarchia, all’epoca, esercitava un tale fascino sull’immaginazione che alla notizia dell’esecuzione di Carlo I qualcuno morì per il colpo; lo stesso dicasi per la morte di Luigi XIV e del duca di Enghien. La terra d’elezione della monarchia assoluta fu senz’altro la Francia. Richelieu sosteneva che era impossibile tenere sottomesso il popolo se gli si consentiva di essere del tutto libero. Secondo lui, dunque, per governare la Francia era indispensabile godere del diritto di arresto arbitrario e di esilio, e, in caso di pericolo per lo Stato, poteva addirittura essere preferibile la morte di cento innocenti. Il ministro delle finanze definì come sediziosa l’affermazione secondo cui la Corona doveva mantener fede alle proprie promesse, e un amico intimo di Luigi XIV sosteneva che anche la minima disobbedienza al re è un delitto degno di essere punito con la morte. Ebbene, il re applicò tali precetti fino alle estreme conseguenze: egli sosteneva infatti senza remore che le clausole legali a cui è legato il re non valgono più delle parole di un complimento, e che non esiste proprietà dei loro sudditi di cui egli non possa legittimamente impadronirsi. In conformità a questo principio, quando il maresciallo Vauban, inorridito dallo stato di miseria in cui versava il popolo, propose di sostituire tutte le imposte vigenti con una meno onerosa, il re accettò il suo consiglio, ma mantenendo tutte le vecchie tasse anche quando impose la nuova. Con metà della popolazione attuale, egli manteneva un esercito di 450.000 uomini, quasi due volte più grande di quello con cui Napoleone attaccò la Germania: tutto ciò mentre il popolo era ridotto alla fame al punto di doversi nutrire di erba. Nelle parole di Fénelon, la Francia all’epoca era un unico immenso ospedale: secondo gli storici francesi, nell’arco di una sola generazione morirono di stenti ben sei milioni di persone. Ci furono senza dubbio tiranni più violenti e più malvagi di Luigi XIV, ma nessuno come lui usò il proprio potere per infliggere tante sofferenze e ingiustizie, e l’ammirazione che gli tributarono gli uomini più illustri del suo tempo segna il punto più basso a cui la turpitudine dell’assolutismo abbia mai degradato l’Europa. D’altro canto, le repubbliche di quell’epoca erano in gran parte governate in modo da conciliare gli uomini con i vizi meno intollerabili del regime monarchico. La Polonia, ad esempio, era uno Stato attraversato da forze centrifughe: ciò che i nobili chiamavano “libertà” non era altro che il diritto da parte di ciascuno di loro di porre il veto sulle leggi della Dieta e di opprimere i contadini sulle loro proprietà. Essi rifiutarono di rinunciare a questi diritti anche all’epoca della Spartizione, confermando così il monito espresso da un predicatore molto tempo prima: “Voi perirete non per invasione o per guerra, ma per le vostre infernali libertà”. Venezia soffriva invece del difetto opposto, ossia di un’eccessiva concentrazione del potere. Il suo era certamente un governo tra i più ingegnosi, e il suo errore principale fu quello di attribuire anche agli altri governi scopi saggi quanto i propri e di sottovalutare passioni e follie delle quali aveva scarsa nozione. Tuttavia, il potere sovrano a Venezia era passato prima dalla nobiltà ad un Comitato, poi dal Comitato ad un Consiglio dei Dieci, infine dai Dieci a tre Inquisitori di Stato: in questa forma di governo estremamente centralizzata essa si trasformò, intorno all’anno 1600, in uno spaventoso dispotismo. Ho già ricordato in precedenza come Machiavelli arrivò a formulare una teoria immorale necessaria alla realizzazione dell’assolutismo regio: l’oligarchia assoluta di Venezia richiedeva la stessa garanzia contro la rivolta delle coscienze. Tale garanzia fu fornita da uno scrittore abile come Machiavelli, che analizzò le esigenze e le risorse dell’aristocrazia e teorizzò che per essa la miglior sicurezza era il veleno. Senatori veneziani, considerate persone onorevoli e persino pie, ricorsero così all’assassinio per scopi di pubblica utilità, con scrupoli non maggiori di quelli mostrati da Filippo II o Carlo IX. I cantoni svizzeri, soprattutto Ginevra, esercitarono un profondo influsso sull’opinione pubblica nell’epoca che precedette la Rivoluzione francese, ma non ebbero parte in quel primo moto che portò poi al governo della legge. Quell’onore, tra le repubbliche, va tributato soltanto ai Paesi Bassi: essi lo conquistarono non grazie alla loro forma di governo, che era difettosa e precaria (infatti, il partito degli Orange congiurò costantemente contro di essa e uccise i più illustri statisti repubblicani, e lo stesso Guglielmo III tramò per ottenere l’appoggio inglese allo scopo di porre sulla propria testa la corona), bensì grazie alla libertà di stampa, che fece dell’Olanda l’avamposto dal quale, nell’ora più nera dell’oppressione, le vittime degli oppressori poterono far sentire la loro voce all’Europa. L’ordinanza di Luigi XIV, nella quale si imponeva ad ogni protestante francese di abiurare alla propria religione, fu pubblicata nello stesso anno in cui salì al trono Giacomo II. Gli esuli protestanti fecero ciò che avevano fatto un secolo prima i loro antenati: affermarono il potere dei sudditi di deporre i governanti che avessero infranto il contratto originario che li univa a loro. E tutte le potenze, esclusa la Francia, supportarono le loro rivendicazioni, mandando in avanscoperta Guglielmo d’Orange in quella spedizione che fu la tenue alba di un giorno più luminoso. L’Inghilterra deve dunque la propria liberazione, più che alla propria forza, a questa combinazione senza precedenti di fattori verificatasi sul continente. I tentativi posti in essere dagli scozzesi, dagli irlandesi e infine dal Lungo Parlamento per liberarsi del malgoverno degli Stuart erano stati vani non per la resistenza della monarchia, ma a causa della fragilità della repubblica. Stato e Chiesa erano stati spazzati via, ed erano state fondate nuove istituzioni sotto la guida del più abile capo politico mai emerso da una rivoluzione. L’Inghilterra, impegnata nel duro lavoro del pensiero politico, aveva inoltre prodotto almeno due autori assai lungimiranti sotto molti aspetti. Tuttavia, la Costituzione di Cromwell venne abbandonata e Harrington e Lilburne andarono incontro prima alla derisione e poi all’oblio. Il Paese ammise così il fallimento della propria lotta, ne sconfessò gli obiettivi e si prostrò con entusiasmo, e senza garanzia alcuna, ai piedi di un re indegno. Se il popolo inglese non fosse riuscito nell’intento di sollevare l’umanità dal peso opprimente della monarchia illimitata, avrebbe fatto più male che bene. La fanatica fellonia con cui esso decise la morte di re Carlo scavalcando il Parlamento e la legge, e l’oscenità del pamphlet in latino con il quale Milton giustificò quell’azione davanti al mondo, diffondendo l’idea che i repubblicani erano ostili tanto alla libertà quanto all’autorità, contribuirono infatti a dare forza e ragioni alla corrente favorevole alla monarchia, che, con la Restaurazione, distrusse la sua opera. Se non fosse riuscita a rimediare a questo errore di valutazione politica, l’Inghilterra avrebbe seguito la stessa strada delle altre nazioni. A quell’epoca c’era una parte di verità nel vecchio adagio che descriveva l’avversione degli inglesi alla speculazione astratta, e che affermava che tutta la nostra filosofia consisterebbe in sostanza in due domande: “Che cos’è la mente? Non è materia. Che cos’è la materia? Non porvi mente”. L’unica autorità riconosciuta alla quale appellarsi era infatti quella della tradizione. I patrioti sostenevano di ispirarsi alle usanze antiche, e per questo non avrebbero modificato le leggi vigenti in Inghilterra. Per dare fondamento alla loro tesi, inventarono la leggenda che la Costituzione proveniva da Troia e che i Romani avevano lasciato che si conservasse intatta. Essa non ebbe però effetto contro Strafford, e il richiamo alle usanze antiche non sempre si dimostrava favorevole alla causa popolare. In materia di religione – aspetto questo decisivo – l’esperienza del XVI secolo, così come quella del XV, testimoniava a favore dell’intolleranza. Per ordine dei re, la nazione era passata per ben quattro volte in una generazione da una fede ad un’altra, con una facilità impressionante. In un Paese che aveva bandito via via ogni religione e si era sottomesso a una straordinaria varietà di provvedimenti penali, non fu vissuto come un pericolo il fatto di mozzare le orecchie ad un puritano. Tuttavia, l’epoca era ormai matura per convinzioni più profonde: gli uomini decisero di abbandonare le antiche abitudini che portavano al patibolo, e di sottomettere la saggezza dei loro antenati e le leggi del Paese ad una legge non scritta. La libertà religiosa era stata il sogno di grandi autori cristiani all’epoca di Costantino e di Valentiniano, un sogno peraltro mai pienamente realizzato nell’Impero romano e bruscamente dissolto allorché i Barbari compresero che era per loro impossibile governare popolazioni civilizzate appartenenti ad un’altra religione: per questo fu imposta l’unità del culto attraverso leggi, pratiche e teorie anche molto crudeli. Da Sant’Attanasio e Sant’Ambrogio fino ad Erasmo e a Moro, in ogni epoca ci fu chi rivendicò con fermezza la libertà di coscienza, e nei tempi di pace che precedettero la Riforma maturò la legittima aspettativa che essa avrebbe prevalso. Nello sconvolgimento che seguì l’epoca della Riforma, gli uomini si accontentarono di tollerarsi reciprocamente attraverso privilegi e compromessi, rinunciando così volontariamente ad una più ampia applicazione del principio. Il primo a sostenere la tolleranza universale sulla base dell’idea della separazione fra Chiesa e Stato fu Sozzini; ma egli indebolì la sua stessa teoria, giacché fu uno strenuo difensore dell’obbedienza passiva. L’idea che la libertà religiosa è il principio generatore di quella civile, e che la libertà civile a sua volta è la necessaria condizione di quella religiosa, fu una scoperta riservata al XVII secolo. Molti anni prima che Milton, Taylor, Baxter o Locke diventassero noti per la loro parziale condanna dell’intolleranza, all’interno delle congregazioni indipendenti vi fu chi affermò con grande forza e convinzione il principio che la libertà delle Chiese può essere assicurata soltanto riducendo l’autorità dello Stato. Questa importantissima teoria politica, che ha santificato la libertà consacrandola a Dio, ed ha insegnato agli uomini ad aver cara la libertà altrui come la propria e a difenderla per amore della giustizia e della carità più che per una rivendicazione di diritto, è stata al centro di tutto ciò che di grande e di buono ha caratterizzato il progresso degli ultimi due secoli. La causa della religione, anche se sotto l’influsso della passione terrena, ha avuto un ruolo pari a quello di qualsiasi teoria politica nel fare di questo il primo tra i Paesi liberi. Essa aveva attraversato in profondità il sommovimento del 1641, e rimase la principale forza propulsiva sopravvissuta alla reazione del 1660. I più grandi scrittori whig, Burke e Macaulay, hanno sempre raffigurato gli uomini politici della Rivoluzione come i legittimi antenati della libertà moderna. È tuttavia sconcertante unire in un’unica linea genealogica figure come Algernon Sidney (agente pagato dal re di Francia), Lord Russell (oppositore tanto della tolleranza religiosa quasi quanto della monarchia assoluta), Shaftesbury (che vide con i propri occhi lo spargimento di sangue innocente versato per lo spergiuro di Titus Gates), Halifax (sostenitore della tesi secondo cui la congiura cattolica andava sostenuta anche se era falsa), Marlborough (che mandò i suoi compagni a morire in una spedizione che egli stesso aveva venduto ai francesi), Locke (la cui idea di libertà comprende la sicurezza della proprietà, ed è dunque conciliabile con la schiavitù e la persecuzione), o persino Addison, secondo cui il diritto di votare sulle imposte non spettava ad alcun Paese ad eccezione del suo. Defoe attesta che dall’epoca di Carlo II a quella di Giorgio I non conobbe alcun politico che professasse veramente la fede sostenuta dal proprio partito; la spregiudicatezza degli uomini politici che guidarono la rivolta contro gli ultimi Stuart fece così arretrare la causa del progresso per un secolo. Quando si cominciò a sospettare quale fosse l’autentico significato dell’accordo segreto con il quale Luigi XIV si impegnava ad aiutare Carlo II con un esercito per sgominare il Parlamento – a patto però che Carlo abolisse la Chiesa anglicana – si ritenne necessario fare qualche concessione al popolo. Si propose dunque che, una volta salito al trono Giacomo, gran parte delle prerogative regie sarebbero state trasferite al Parlamento; allo stesso tempo, sarebbero state abolite le discriminazioni nei confronti di non-conformisti e cattolici. Se fosse stato approvato il Limitation Bill, promosso con grande abilità da Halifax, la Costituzione monarchica avrebbe fatto più passi avanti nel XVII secolo di quanti ne avrebbe poi fatti sino alla metà del XIX. Ma i nemici di Giacomo, capitanati dal principe di Orange, preferirono un re protestante – che si sarebbe rivelato quasi assoluto – ad un re costituzionale cattolico. Il progetto legislativo andò così incontro al fallimento e Giacomo, con la successione, acquisì un potere che in mani più accorte sarebbe stato praticamente incontrollato: la tempesta che lo avrebbe portato al naufragio iniziava così a presentarsi all’orizzonte. Arginando il predominio della Francia, la Rivoluzione del 1688 sferrò il primo colpo al dispotismo continentale: in patria essa contribuì a calmare il dissenso religioso, ad emendare la giurisdizione e a sviluppare energie e risorse nazionali. Con l’Act Of Settlement, infine, portò la Corona in dote al popolo. Tuttavia, essa non introdusse né produsse alcun principio importante, e il fatto che i due partiti fossero in grado di lavorare di concerto non contribuì a risolvere la questione aperta tra whigs e tories. Al posto del diritto divino dei re essa introdusse, per usare le parole di Defoe, il “diritto divino dei liberi proprietari”, cosicché il loro predominio durò per settant’anni, sotto l’autorità di John Locke, il filosofo del governo della gentry. Nemmeno Hume riuscì ad allargare i confini delle sue idee, e la sua fede materialistica nella connessione tra libertà e proprietà fece sentire il suo fascino anche sulla mente dell’audace Fox. Con la sua idea che i poteri del governo debbano essere divisi secondo la loro natura, e non secondo le divisioni di classe (idea poi ripresa e sviluppata da Montesquieu), Locke può essere considerato l’iniziatore del lungo dominio delle istituzioni inglesi in terre straniere. La sua dottrina della resistenza o, come egli giunse a definirla in seguito, dell’appello al Cielo, ispirò il giudizio di Chatham in un momento di grande trasformazione nella storia mondiale. Il nostro sistema parlamentare, controllato dalle grandi famiglie rivoluzionarie, era un meccanismo in virtù del quale gli elettori erano costretti – e i legislatori indotti – a votare contro le proprie convinzioni: l’intimidazione esercitata sui collegi elettorali era ricompensata con la corruzione dei loro rappresentanti. Intorno al 1770 la situazione era pressoché ritornata a quelle condizioni che si sperava la Rivoluzione avrebbe superato per sempre, e l’Europa sembrava incapace di diventare la patria degli Stati liberi. Dall’America irruppero, sotto il nome di “diritti dell’Uomo”, le idee che gli uomini devono badare ai propri affari e il popolo è responsabile di fronte a Dio per le azioni compiute dallo Stato – idee a lungo chiuse nel cuore di pensatori solitari e nascoste tra lolia latini. In base alla lettera della legge, era difficile stabilire se il potere legislativo inglese godesse per Costituzione del diritto di imporre tributi ad una sua colonia. Da parte dell’autorità vi era una vasta e diffusa presunzione, e il mondo riteneva che dovesse essere considerata sovrana la volontà del potere costituito, e non quella del popolo soggetto. Solo pochi audaci pensatori giunsero ad affermare che in caso di estrema necessità si può opporre resistenza al potere legittimo. Ma i coloni d’America, che non erano partiti in cerca di ricchezze bensì per fuggire da leggi sotto le quali altri inglesi erano contenti di vivere, erano così sensibili anche alle apparenze che le Blue Laws del Connecticut proibivano ai mariti di andare in chiesa camminando ad una distanza dalle loro mogli inferiore ai dieci piedi. L’imposta proposta, che era di sole dodicimila sterline l’anno, avrebbe potuto essere tollerata senza difficoltà, ma le ragioni per cui a Edoardo I e al suo Consiglio non era stato permesso di imporre tasse all’Inghilterra erano le stesse per le quali Giorgio II e il suo Parlamento non avrebbero dovuto imporre tasse all’America. Il dibattito riguardava un principio preciso, vale a dire il diritto di esercitare un controllo sul governo. Inoltre, esso riguardava l’idea secondo la quale il Parlamento eletto in una consultazione senza valore non aveva alcun legittimo diritto su un popolo non rappresentato, e costituiva un richiamo per il popolo inglese affinché riprendesse il proprio potere. I nostri migliori statisti compresero che, qualsiasi fosse stata la legge, erano in gioco i diritti del popolo. In alcuni discorsi memorabili in Parlamento, Chatham esortò l’America a non cedere. Il cancelliere Lord Camden affermò: “Tassazione e rappresentanza sono legate inseparabilmente l’una all’altra. Dio stesso le ha unite. Nessun Parlamento britannico può separarle”. Con gli elementi forniti da quella crisi Burke delineò la più nobile filosofia politica del mondo: “Io non so in base a quale criterio”, affermò, “si possa formulare un’imputazione contro un intero popolo. I diritti naturali dell’umanità sono sacri, e se viene dimostrato che un pubblico provvedimento arrechi ad essi un qualsiasi danno, tale obiezione dovrebbe risultare fatale per quel provvedimento, quand’anche contro di esso non potesse essere impugnata nessuna carta. Soltanto una ragione sovrana, superiore ad ogni forma di legislazione e amministrazione, va considerata valida”. In questo modo, esattamente cento anni fa, la reticenza opportunistica e l’irresolutezza politica dei governanti europei vennero finalmente infrante, e si fece strada il principio secondo il quale un popolo non può mai abbandonare il proprio destino nelle mani di un’autorità che esso non può controllare. Gli americani posero questo principio a fondamento del loro governo. Anzi, fecero di più: dal momento che avevano sottoposto tutte le autorità civili alla volontà popolare, circondarono la volontà popolare di restrizioni che il potere legislativo britannico non avrebbe tollerato. Durante la Rivoluzione francese, l’esempio dell’Inghilterra, a cui si era fatto a lungo riferimento, non riuscì neanche minimamente a competere con l’influenza di un Paese le cui istituzioni erano organizzate tanto sapientemente da tutelare la libertà anche contro i pericoli stessi della democrazia. Quando Luigi Filippo divenne re assicurò a Lafayette, un vecchio repubblicano, che quanto aveva visto negli Stati Uniti lo aveva persuaso che la repubblica era la migliore forma di governo. Circa 55 anni fa, durante la presidenza Monroe, ci fu un periodo ancora oggi noto come “epoca dei buoni sentimenti”, in cui tutte le incongruenze risalenti agli Stuart erano state appianate e le successive cause di divisione erano ancora inoperanti. I motivi di turbamento del Vecchio mondo – l’ignoranza del popolo, la povertà, il pericoloso contrasto tra ricchi e poveri, i conflitti religiosi, il debito pubblico, gli eserciti stanziali e la guerra – erano del tutto sconosciuti. Nessun’altra epoca e nessun altro Paese avevano affrontato con simile successo i problemi legati allo sviluppo di società libere... Ora, pur essendo giunto al termine del tempo concesso a mia disposizione, sono arrivato a malapena all’inizio del compito che mi ero prefissato. Nelle epoche di cui ho parlato, la storia della libertà era la storia di qualcosa di non esistente; tuttavia, a partire dalla Dichiarazione d’Indipendenza o, più precisamente, da quando gli Spagnoli, privati del proprio re, si diedero una nuova forma di governo, le uniche due forme di libertà note – ovvero la monarchia costituzionale e la repubblica – hanno fatto molta strada nel mondo. Sarebbe stato interessante soffermarsi anche sulla reazione dell’America nei confronti delle monarchie che erano state determinanti per il conseguimento della sua indipendenza; oppure descrivere come l’improvvisa ascesa dell’economia politica abbia suggerito l’idea di applicare i metodi della scienza all’arte del governo; o considerare come Luigi XVI, dopo aver ammesso l’inutilità del dispotismo, si appellò alla Nazione per fare ciò che andava al di là delle sue facoltà, per poi lasciare il potere alla classe media, e come gli uomini colti della Francia, rabbrividendo ai terribili ricordi della propria esperienza, lottarono per chiudere i conti con il passato, per poter liberare i propri figli dal Principe del Mondo, fino a che non venne gettata via anche la più favorevole opportunità mai data al mondo, perché la passione dell’eguaglianza aveva vanificato la speranza della libertà. Avrei inoltre desiderato riflettere su come lo stesso deliberato rifiuto delle norme morali che aveva spianato la strada alla monarchia assoluta e all’oligarchia avesse portato all’avvento della rivendicazione democratica del potere illimitato; su come uno dei più illustri campioni di quest’ultima avesse rivendicato per sé il diritto di corrompere il senso morale degli uomini al fine di distruggere l’autorità della religione; e infine su come un famoso difensore dell’Illuminismo e della tolleranza desiderasse che l’ultimo re fosse strangolato con le budella dell’ultimo prete. Mi sarebbe poi piaciuto spiegare la connessione tra la dottrina di Adam Smith, secondo cui il lavoro è la fonte originaria di ogni ricchezza, e la tesi per la quale il popolo è composto sostanzialmente dai produttori di ricchezza, per mezzo della quale Sieyès sovvertì la storia della Francia. Così come sarebbe stato interessante mostrare come la definizione del contratto sociale di Rousseau, che lo considerava un’associazione volontaria tra soci eguali, condusse Marat a sostenere che le classi più povere erano esentate, per la legge dell’auto-conservazione, dalle condizioni stabilite da un contratto che le ricompensava soltanto con la miseria e la morte, e che per questo esse erano in guerra con la società e avevano diritto a tutto ciò che riuscivano a procurarsi sterminando i ricchi. La loro ferrea teoria dell’eguaglianza, in quanto eredità principale della Rivoluzione, insieme alla dichiarata incapacità della scienza economica di affrontare i problemi dei poveri, fece riemergere l’idea di una rigenerazione della società fondata sul principio del sacrificio personale. Questa era stata la generosa aspirazione dei primi cristiani, dei Padri della Chiesa, dei canonici e dei frati; e poi ancora di Erasmo, il più illustre precursore della Riforma, di Sir Thomas More, la sua più illustre vittima, nonché di Fénelon, il più popolare tra i vescovi. Tuttavia, durante i quarant’anni trascorsi dal suo ritorno in auge, essa venne associata all’odio, alla ferocia e allo spargimento di sangue, tanto da rappresentare ancora oggi il nemico più pericoloso sul nostro stesso cammino. Infine, avendo mostrato quanto sterili fossero le convulsioni che sollevarono i peccati della repubblica alla stessa altezza di quelli della monarchia, e come il principio di legittimità, che ripudiò la Rivoluzione, e l’imperialismo, che la coronò, non erano che differenti travestimenti dello stesso elemento di violenza e sopruso, avrei desiderato indicare da chi e attraverso quali collegamenti fu scoperta la vera legge della formazione degli Stati liberi, cosicché il mio discorso non si concludesse con una massima o una morale. Questa scoperta, così strettamente legata a quelle che, sotto la denominazione di sviluppo, evoluzione e continuità, hanno fornito un nuovo metodo alle altre scienze, ha in qualche modo risolto l’antico problema del rapporto tra stabilità e mutamento, e mostrato quanta sia stata l’autorità esercitata dalla tradizione sul progresso del pensiero. La teoria che Sir James Mackintosh illustrò dicendo che le Costituzioni non vengono create, ma nascono – la teoria secondo la quale i produttori del diritto sono i costumi e le caratteristiche nazionali dei governati, e non la volontà dei governanti, e che pertanto la nazione, in quanto fonte delle proprie istituzioni organiche, dovrebbe essere investita della perpetua custodia della loro integrità – giunse, grazie alla singolare cooperazione tra l’intelletto più conservatore e una rivoluzione con spargimento di sangue, tra Niebuhr e Mazzini, a produrre l’idea di nazionalità, che ha governato lo sviluppo della nostra epoca molto più di quella di libertà. Prima di concludere, intendo richiamare l’attenzione su un fatto significativo: gran parte della dura lotta, del pensiero e della resistenza che hanno contribuito a liberare l’uomo dal potere dell’uomo è stata opera dei nostri connazionali e dei loro discendenti che hanno vissuto in altri Paesi. Come altri popoli, noi abbiamo dovuto confrontarci con monarchi dotati di forte volontà e di risorse assicurate loro dalle proprietà straniere, con uomini di rare capacità e con intere dinastie di tiranni al potere per diritto di nascita. E tuttavia, questa orgogliosa rivendicazione resta sullo sfondo della nostra storia. Ad una sola generazione dalla Conquista, i Normanni furono costretti ad accogliere con una certa riluttanza le richieste del popolo inglese. Quando il conflitto tra Chiesa e Stato si estese all’Inghilterra, i nostri prelati iniziarono ad associarsi con la causa popolare e, salvo rare eccezioni, né lo spirito gerarchico del clero straniero, né la predisposizione alla monarchia caratteristica dei Francesi, caratterizzarono gli autori di scuola inglese. Il diritto civile, trasmesso dall’Impero decaduto per fungere da fondamento del potere assoluto, restò estraneo all’Inghilterra; il diritto canonico fu accolto con molte limitazioni, e questo Paese non accettò mai l’Inquisizione, né accolse del tutto l’uso della tortura che tanti terrori portò nelle monarchie del continente. Alla fine del Medioevo, gli autori stranieri riconoscevano la nostra superiorità e la addebitavano proprio a questi fatti. In seguito, la nostra gentry mantenne delle possibilità di autogoverno locale che nessun altro Paese possedeva; le divisioni religiose costrinsero alla tolleranza e la confusione della common law insegnò al popolo che la miglior garanzia era l’indipendenza e l’onestà dei giudici. Tutte queste spiegazioni restano in superficie, ma possono essere soltanto l’effetto di una causa costante che risiede nelle stesse qualità naturali di perseveranza, moderazione, individualismo e virile senso del dovere che hanno portato la razza inglese alla supremazia nell’austera arte del lavoro, alla prosperità senza pari anche su lidi inospitali, e che (nonostante nessun altro popolo abbia meno desiderio di gloria e sete di sangue) fece esclamare a Napoleone, mentre fuggiva a cavallo da Waterloo: “È stato sempre così, fin da Crecy”. Se esistono dunque buone ragioni per essere orgogliosi del passato, ve ne sono di ancora maggiori per sperare nel tempo a venire. Il nostro vantaggio cresce, mentre altre nazioni temono i loro vicini o sono avide dei loro beni. Non mancano certo anomalie e difetti, ma sono minori, più tollerabili e meno evidenti di un tempo. Lungo il duro ed estenuante cammino attraverso il quale gli uomini sono giunti alla libertà, la luce che ci ha guidato non si è ancora esaurita, e le motivazioni che ci hanno condotto così lontano alla testa delle nazioni libere non hanno ancora dissipato tutta la loro energia: perché la storia del futuro è scritta nel passato, e ciò che è stato è lo stesso di ciò che sarà. (Traduzione di Flavio Felice)
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